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Neutral Milk Hotel
On Avery Island (Deluxe 2Lp)
[Fire records 2023]

Sulla rete: firerecords.com

File Under: Portrait of the artist as a young(er)


di Yuri Susanna (27/02/2023)

Cosa si può ragionevolmente aggiungere, senza che suoni ridondante, pleonastico o semplicemente banale, al fiume di inchiostro (di byte, più che altro) che è stato copiosamente speso sull’evanescente enigma chiamato Jeff Mangum e sul suo magnum opus (“Mangum” opus?) In the Aeroplane Over the Sea? Domanda retorica, quindi mi taccio. Anche perché oggetto di queste righe è in realtà il primo disco ufficiale uscito sotto la sigla Neutral Milk Hotel, il fratello sfortunato, l’opera destinata a splendere di luce riflessa o, au contraire, a deperire nel cono d’ombra proiettato dall’ingombrante successore. Aeroplane è il capolavoro intoccabile, IL disco feticcio per quella generazione che, negli anni a cavallo degli ultimi due secoli, andava sostituendo il passaparola tra amici con le chat in rete e le registrazioni domestiche su nastro con gli mp3 e il filesharing. Il celebre stereotipo appiccicato al primo disco dei Velvet Underground può valere anche per quell’improbabile concept album su Anna Frank, partorito in un lucido delirio da Mangum con produzione lo-fi ma attitudine larger than life: non importa quante copie abbia venduto, chiunque lo abbia ascoltato (diciamo meglio: qualunque adolescente l’abbia ascoltato) ha preso in mano una chitarra e ha cercato di replicarne la debordante urgenza espressiva nella propria cameretta o nel garage di papà.

On Avery Island, ristampato ora in edizione deluxe in doppio vinile colorato e nuova veste grafica ma senza inediti, è tutta un’altra bestia, inevitabilmente. Bisogna dire che, all’epoca della prima pubblicazione (1996) non passò del tutto inosservato e ricevette anche qualche recensione lusinghiera, ma per i più la sua è stata una riscoperta tardiva, a posteriori. Da allora l’approccio critico al disco si è fondamentalmente diviso in due tendenze: quella di chi cerca disperatamente in esso i segnali che anticipano ciò che verrà e quella di chi cerca di sottolinearne il valore in sé, a prescindere da confronti ingombranti. La domanda quindi a cui non può non tentare di rispondere chi, a 27 anni dall’uscita, cerchi di dare un giudizio che collochi il disco nel giusto contesto è la seguente: On Avery Island sarebbe una ragione sufficiente per continuare a parlare del suo autore, a farne un oggetto di culto di tali dimensioni? Senza girarci troppo intorno, la risposta è no. Non è un album epocale, né un disco privo di evidenti difetti. Ma è anche un disco che, nei suoi momenti più riusciti, regala sprazzi di epifania, ed è anche e soprattutto una testimonianza valida di un gusto che andava sotterraneamente diffondendosi nel rock indipendente americano di metà anni Novanta e ne condizionerà la futura evoluzione.

Registrato con la complicità dell’amico d’infanzia Robert Schneider (Apples in Stereo) e di un manipolo di altri sodali, il disco va inquadrato nel contesto dell’Elephant Six, collettivo musicale disperso tra Athens e Denver che aveva già prodotto opere memorabili (a firma dei già citati Apples in Stereo e degli Olivia Tremor Control) e che lascerà in eredità filiazioni più o meno fondamentali negli anni a venire (direttamente con Of Montreal e Beulah, indirettamente nell’influenza che si può percepire nell’indie rock degli ultimi vent’anni, dagli Arcade Fire ai Tame Impala). A muovere le acque dell’underground c’era, in quegli anni di fermenti incontrollati, un desiderio di recuperare una certa psichedelia stralunata dei Sessanta in un contesto che assorbiva ancora l’eco dell’esplosione grunge (o più trasversalmente alternative) e vedeva i primi eroi slacker o lo-fi conquistare il pubblico di Mtv. Ci sono più affinità tra Jeff Mangum (questo Jeff Mangum, ben inteso) e Beck (o i Flaming Lips, o i Pavement) di quanto si potrebbe sospettare. Ascoltate per esempio quell’ode a un’ossessione amorosa che è Naomi, e diteci se non starebbe bene anche nel repertorio di Stephen Malkmus.

Ma c’è anche una perseveranza perversa nel seguire un’ispirazione scostante, che gode a seppellire le melodie nel fuzz delle chitarre e dei bassi (vedi il trattamento riservato a quello che sarebbe potuto essere il singolo perfetto, Song Against Sex) sino a pungere come un istrice scontroso e a tenere lontani dal cuore tenero e vulnerabile delle melodie di matrice folk (Someone is Waiting è Syd Barrett fatto friggere in un pentolone di distorsioni e bip bip da modernariato, Where You’ll Find Me è una passeggiata al chiaro di luna sotto una coltre di feedback, Three Peaches è il blues postmoderno che implode nella sua stessa claustrofobia suicida). L’epilogo strumentale di oltre 13 minuti è poi un anticlimax che si fa fatica a mandare giù, anche se, certo, un brano disarmante come A Baby for Pree Mangum non lo scriverà più e da solo è segno di come, non avesse preso la strada dell’allucinazione freak folk di Aeroplane, e poi quella del volontario esilio, avrebbe forse avuto davanti a sé una traiettoria non dissimile da quella percorsa qualche anno dopo da un Sam Bean (Iron and Wine) o, in quegli stessi anni, da un Mark Linkous (Sparklehorse). Ma con le ucronie (i se e i ma) ci si diverte ma non si riscrive la storia. E On Avery Island, guardato senza pregiudizi, rimarrà sempre un interessante, a tratti assai affascinante, disco minore
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