Died Pretty
Free Dirt -
Expanded & Remastered
Doughboy Hollow - Expanded & Remastered

[
Aztec Music, 2008  2CD
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"Energico e disperato, il lamento dei Died Pretty sfoglia le pagine consunte dello spleen adolescenziale con rinnovata enfasi, non ignaro delle litanie di Patti Smith e dei melodrammi di Bruce Springsteen." Ecco, se l'autore di queste parole in effetti esistesse, se non bisognasse tirargli le orecchie per uno stile oratorio sempre e comunque tremendamente involuto, bisognerebbe allora dire che per una volta il buon Piero Scaruffi ha saputo sintetizzare con rara efficacia il respiro che ancora oggi soffia nelle canzoni migliori degli australiani Died Pretty. Uno di quei gruppi che anche in Italia, durante gli anni '80, complice un'infatuazione se vogliamo un po' superficiale per una new-wave degli antipodi osannata come rivoluzionaria quando in realtà si limitava ad aggiornare (con rinnovato slancio visionario, questo sì) un canone rock'n'roll vecchio quanto i Doors e la psichedelia sixties di Frisco e dintorni, venivano osannati oltre e al di là di ogni riserbo critico e sono poi stati scaraventati nel dimenticatoio con altrettanta, malaccorta rapidità.

Eppure, il disco meritorio di entrare negli annali della storia del rock i Died Pretty l'hanno scolpito per davvero, si intitola Free Dirt, esce in origine per la Citadel nel 1986 e suona anche oggi alla maniera di un incendio di visioni, liturgie deviate, scorticato lirismo, romanticismo fiammeggiante. I 9 brani di Free Dirt, con picchi irripetibili nelle lunghe e acidissime prolusioni di Life To Go, Just Skin e Next To Nothing, traggono la propria solenne potenza dal paesaggio del profondo outback australiano, dal quale emergono tramite allucinati sermoni doorsiani e deraglianti grovigli di organo, pianoforte, chitarre, violini. Officianti esclusivi della cerimonia sono lo stentoreo vocalist Ronnie Peno, l'organista ed ex-giornalista Frank Brunetti, il chitarrista Brett Myers (che con Brunetti proveniva da una psych-band significativamente chiamata The End) e il furibondo drummer Chris Welsh, già batterista dei conterranei Screaming Tribesmen, mentre la supervisione del rito è affidata al leggendario Rob Younger (proprio il frontman dei gloriosi Radio Birdman e dei successivi New Christs), che chiama a raccolta il selvaggio sax di Tim Fagan, gli archi di Julian Watchhorn, qualche steel e un mandolino per confezionare un febbricitante monumento alla combinazione tra punk, r'n'r, atmosfere gotiche, folk disturbato e convulse accelerazioni di epos drogato.

Quando la combriccola si riunisce, non prima di aver provato a tenere qualche concerto sotto il nome di Final Solution (un chiaro omaggio ai Pere Ubu di David Thomas), i sogni di gloria sono ancora limitati. Secondo Peno, "il massimo della fama potrebbe essere incidere un sette pollici e poi non farsi mai più sentire". Ma nonostante le ambizioni ridotte di Peno, Myers e soci, nella prima metà degli '80 la scena di Sydney - la più antica città d'Australia nonché luogo natale di quasi tutti i membri del gruppo - si presenta piuttosto vivace: un posto dove circolano Hoodoo Gurus, Moffs, Johnnys, Celibate Rifles, Sunnyboys e Beasts Of Bourbon è l'ideale per farsi le ossa e guardarsi un po' intorno. Grazie all'interessamento del citato Younger, la band giunge all'esordio discografico in tempi molto brevi, e nonostante nello stesso periodo i gruppi garage siano soliti realizzarne a migliaia, ci rende conto da subito che Out Of The Unknown, licenziato dalla Citadel nel 1984, non è il solito singolo usa e getta. La canzone, un blues selvaggio e stravolto dove una slide impazzita fa la sua irruzione a metà programma, ipotizza un inedito quanto eccitante matrimonio tra a psichedelia beat dei primi Byrds e l'affilato ringhiare chitarristico dei Television; più rasserenante e tranquillo il retro, affidato alla melodia cantabile di World Without. Rapidamente esaurita la prima stampa del 45, la Citadel provvede a immetterne sul mercato un'altra, in due diverse versioni: ad Out Of The Unknown viene stavolta accoppiato il monumento psichedelico di Mirror Blues, 10 minuti di riff d'organo, rasoiate di sei corde e un 2/4 di batteria che si trasforma in 6/4 nel break centrale, un inseguimento dei fantasmi di Gun Club, Velvet Underground e Tom Verlaine suddiviso in due parti, una per ciascuna edizione del singolo. Quindi è la volta di un 12 pollici, Next To Nothing ('85), che forte di un'altra impennata di radicalismo psichedelico e rock'n'roll - gli 8' incandescenti di Desperate Hours - proietta senza esitazioni il gruppo tra le promesse più eccitanti di tutti gli antipodi.

L'edizione "deluxe" di Free Dirt, che giusto un anno dopo Next To Nothing conferma tutte le promesse di cui sopra e ne formula addirittura altre, racchiude tutto quel che vi ho appena descritto (compresa la versione integrale di Mirror Blues) e gli aggiunge diversi episodi dal vivo registrati tra America, Australia e Inghilterra (con una devastante rilettura londinese della loureediana Wild Child che vale da sola il prezzo del biglietto), il singolo francese di Stoneage Cinderella (doppiato da una splendida Yesterday's Letters) e diversi demo, tra i quali spicca una sgangherata ed ultraelettrica rivisitazione del Bob Dylan di From A Buick 6. Ma non contenesse altro che il disco nella sua forma primigenia, questa ristampa andrebbe comunque benedetta, perché ha il pregio di rispolverare dall'oblio uno dei dischi migliori degli ultimi venticinque anni, e non certo uno dei più facili da reperire.

La psichedelia velvettiana, dolce, perturbante e claustrofobica al tempo stesso di The 2000 Year Old Murder, la tempesta di sax, chitarre e tastiere scatenata in una Next To Nothing scolpita nella roccia, il punk'n'roll stradaiolo e irresistibile di Stoneage Cinderella, le sorprendenti svisate rootsy di una Through Another Door cucita prendendo in prestito le intuizioni del Neil Young più notturno e rabbioso e l'incontenibile tappeto ritmico delle frenetiche Wig-Out (reminiscenze celtiche a bagno nell'acido), Laughing Boy (un arsenale ritmico di potenza inaudita), Blue Sky Day (folk-punk con spettacoloso finale all'insegna di una jam tra violino e mandolino) o Round And Round continuano a splendere di un fulgore sciamanico ereditato dalle voci di Jim Morrison e Iggy Pop, alla cui enfasi teatrale Peno deve indubbiamente parecchio, e di un senso di sofferenza psichica incombente, oppressivo e minaccioso ereditato dai Velvet come dalla dolorosa poesia urbana dei rockers americani degli anni '70 e dalle spigolature nervose del primo post-punk. A rendere ancora più singolare l'impasto di elementi provvede senz'altro la produzione di Younger, perfetta nel fare in modo che i brani si raddensino intorno a toni epici da messale alternativo del rock che tuttavia non perde occasione per agguantare una grande melodia laddove se ne presenti una, magari già cantata da Bob Dylan, Gram Parsons o Roger McGuinn.

Detta melodia viene inseguita soprattutto negli album successivi, che pur mantenendosi su buoni livelli non sapranno più riproporre, salvo occasionali zampate (ascoltate Winterland dal susseguente Lost ['88] o The Underbelly dal terzo Every Brilliant Eye ['90]), il bruciante furore degli inizi. Sarà anzi particolarmente infausto l'accasamento presso la Sony, foriero di due album da dimenticare (Trace ['93] e Sold ['95]), mentre risulterà inaspettatamente buono il rientro in Citadel, che nel 1998 pubblicherà uno Using My Gills As A Roadmap che resta forse il primo album di Myers e Peno da portarsi in casa qualora già si possieda Free Dirt. Conservavo un brutto ricordo di Doughboy Hollow, il quarto album dei nostri, uscito per l'inglese Beggars Banquet nel 1991, ma siccome l'etichetta aussie Aztec ha ristampato pure quello, sempre in edizione ampliata, l'ho messo nella lista della spesa e vi dirò, regalo e sorpresa migliori non potevo farmi.

Certo, non siamo alle altezze siderali di Free Dirt, eppure penso si tratti ugualmente di un disco nei cui confronti il tempo s'è rivelato assai galantuomo, e sebbene non rivoluzioni un bel nulla, al contrario del debutto di sei anni prima, dico che se una simile raccolta di belle canzoni (solide, robuste, intrinsecamente classic rock e impregnate di un inequivocabile feeling "americano") uscisse oggi ci strapperemmo i capelli in quattro e quattr'otto. Nelle note di questa ristampa il gruppo lascia intendere che la produzione dell'album, affidata a quel Hugh Jones già in cabina di regia per Echo & The Bunnymen e all'epoca collaboratore per dei Del Amitri ai primi passi, nasce come reazione al lavoro troppo statunitense ("his stridently US production sensibility") svolto da Jeff Eyrich su Every Brilliant Eye, ma nei fatti Doughboy Hollow assomiglia in tutto e per tutto a un disco di college rock americano (difatti negli USA rimane il loro best-seller) dalle forti tentazioni classicheggianti, per nulla agressivo e molto concentrato sui perimetri della forma-canzone. Piacerà a chi in quegli anni impazziva per Tom Petty, REM, Dashboard Saviors, Buffalo Tom, i Green On Red di Too Much Fun ('92) e i Soul Asylum di Grave Dancers Union ('92), tutti nomi che non possono non tornare in mente accostandosi al roots-pop limpido e sentimentale delle varie Sweetheart, The Love Song, Out In The Rain.

Il nuovo tastierista John Hoey non ha una sola goccia del sangue lisergico e spiritato di Brunetti, ma allineandosi al drumming stavolta gentile di Chris Welsh e alle percussioni rootsy della new-entry Sunil De Silva riesce comunque a trovare un buon compromesso tra mid-tempos e raffinatezze. L'attacco violento di Doused, il marziale e abbacinato passo celtico di The Battle Of Stanmore o la tristezza forsennata di una Godbless marchiata a fuoco dagli assoli di Myers rammentano in parte i trascorsi ardori, tuttavia il cuore dell'album va cercato nella garbata malinconia elettrica della notturna Satisfied, nel jingle-jangle byrdsiano della frizzante Stop Myself e nelle soffici suggestioni elettroacustiche di D.C., quest'ultima addolcita dalla viola di Sarah Peet e dal violino di Amanda Brown (Go-Betweens). L'aspetto tradizionalista di Doughboy Hollow è inoltre rafforzato dal corredo fotografico di copertina e booklet (a cura di Paul Tatz), con le sue immagini di automezzi vintage arrugginiti e abbandonati colte nel bel mezzo delle periferie campestri d'Australia, e dai 15 brani del cd aggiunto, che oltre ai vari "lati b" dei singoli dell'epoca presenta quasi tutto il disco in versione demo e mostra chiaramente quanto le sue 11 tracce suonassero in origine ben più ruvide e grintose.

Ma chi ha detto che invecchiare bene significhi soltanto scimmiottare gli entusiasmi di gioventù? Free Dirt e Doughboy Hollow non avranno la stessa statura artistica, questo è certo, eppure non è una ragione sufficiente per non amarli entrambi.
(Gianfranco Callieri)

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