"Energico e disperato,
il lamento dei Died Pretty sfoglia le pagine consunte dello spleen
adolescenziale con rinnovata enfasi, non ignaro delle litanie
di Patti Smith e dei melodrammi di Bruce Springsteen." Ecco,
se l'autore di queste parole in effetti esistesse, se non bisognasse
tirargli le orecchie per uno stile oratorio sempre e comunque
tremendamente involuto, bisognerebbe allora dire che per una volta
il buon Piero Scaruffi ha saputo sintetizzare con rara efficacia
il respiro che ancora oggi soffia nelle canzoni migliori degli
australiani Died Pretty. Uno di quei gruppi che anche in
Italia, durante gli anni '80, complice un'infatuazione se vogliamo
un po' superficiale per una new-wave degli antipodi osannata come
rivoluzionaria quando in realtà si limitava ad aggiornare (con
rinnovato slancio visionario, questo sì) un canone rock'n'roll
vecchio quanto i Doors e la psichedelia sixties di Frisco e dintorni,
venivano osannati oltre e al di là di ogni riserbo critico e sono
poi stati scaraventati nel dimenticatoio con altrettanta, malaccorta
rapidità.
Eppure, il disco meritorio di entrare negli annali della storia
del rock i Died Pretty l'hanno scolpito per davvero, si intitola
Free Dirt, esce in origine per la Citadel nel 1986
e suona anche oggi alla maniera di un incendio di visioni, liturgie
deviate, scorticato lirismo, romanticismo fiammeggiante. I 9 brani
di Free Dirt, con picchi irripetibili nelle lunghe e acidissime
prolusioni di Life To Go,
Just Skin e Next
To Nothing, traggono la propria solenne potenza dal
paesaggio del profondo outback australiano, dal quale emergono
tramite allucinati sermoni doorsiani e deraglianti grovigli di
organo, pianoforte, chitarre, violini. Officianti esclusivi della
cerimonia sono lo stentoreo vocalist Ronnie Peno, l'organista
ed ex-giornalista Frank Brunetti, il chitarrista Brett
Myers (che con Brunetti proveniva da una psych-band significativamente
chiamata The End) e il furibondo drummer Chris Welsh, già
batterista dei conterranei Screaming Tribesmen, mentre la supervisione
del rito è affidata al leggendario Rob Younger (proprio
il frontman dei gloriosi Radio Birdman e dei successivi New Christs),
che chiama a raccolta il selvaggio sax di Tim Fagan, gli archi
di Julian Watchhorn, qualche steel e un mandolino per confezionare
un febbricitante monumento alla combinazione tra punk, r'n'r,
atmosfere gotiche, folk disturbato e convulse accelerazioni di
epos drogato.
Quando la combriccola si riunisce, non prima di aver provato a
tenere qualche concerto sotto il nome di Final Solution (un chiaro
omaggio ai Pere Ubu di David Thomas), i sogni di gloria sono ancora
limitati. Secondo Peno, "il massimo della fama potrebbe essere
incidere un sette pollici e poi non farsi mai più sentire". Ma
nonostante le ambizioni ridotte di Peno, Myers e soci, nella prima
metà degli '80 la scena di Sydney - la più antica città d'Australia
nonché luogo natale di quasi tutti i membri del gruppo - si presenta
piuttosto vivace: un posto dove circolano Hoodoo Gurus, Moffs,
Johnnys, Celibate Rifles, Sunnyboys e Beasts Of Bourbon è l'ideale
per farsi le ossa e guardarsi un po' intorno. Grazie all'interessamento
del citato Younger, la band giunge all'esordio discografico in
tempi molto brevi, e nonostante nello stesso periodo i gruppi
garage siano soliti realizzarne a migliaia, ci rende conto da
subito che Out Of The Unknown,
licenziato dalla Citadel nel 1984, non è il solito singolo usa
e getta. La canzone, un blues selvaggio e stravolto dove una slide
impazzita fa la sua irruzione a metà programma, ipotizza un inedito
quanto eccitante matrimonio tra a psichedelia beat dei primi Byrds
e l'affilato ringhiare chitarristico dei Television; più rasserenante
e tranquillo il retro, affidato alla melodia cantabile di World
Without. Rapidamente esaurita la prima stampa del 45, la Citadel
provvede a immetterne sul mercato un'altra, in due diverse versioni:
ad Out Of The Unknown viene stavolta accoppiato il monumento
psichedelico di Mirror Blues,
10 minuti di riff d'organo, rasoiate di sei corde e un 2/4 di
batteria che si trasforma in 6/4 nel break centrale, un inseguimento
dei fantasmi di Gun Club, Velvet Underground e Tom Verlaine suddiviso
in due parti, una per ciascuna edizione del singolo. Quindi è
la volta di un 12 pollici, Next To Nothing ('85), che forte di
un'altra impennata di radicalismo psichedelico e rock'n'roll -
gli 8' incandescenti di Desperate Hours
- proietta senza esitazioni il gruppo tra le promesse più eccitanti
di tutti gli antipodi.
L'edizione "deluxe"
di Free Dirt, che giusto un anno dopo Next To Nothing
conferma tutte le promesse di cui sopra e ne formula addirittura
altre, racchiude tutto quel che vi ho appena descritto (compresa
la versione integrale di Mirror Blues) e gli aggiunge diversi
episodi dal vivo registrati tra America, Australia e Inghilterra
(con una devastante rilettura londinese della loureediana Wild
Child che vale da sola il prezzo del biglietto), il
singolo francese di Stoneage Cinderella
(doppiato da una splendida Yesterday's
Letters) e diversi demo, tra i quali spicca una sgangherata
ed ultraelettrica rivisitazione del Bob Dylan di From
A Buick 6. Ma non contenesse altro che il disco nella
sua forma primigenia, questa ristampa andrebbe comunque benedetta,
perché ha il pregio di rispolverare dall'oblio uno dei dischi
migliori degli ultimi venticinque anni, e non certo uno dei più
facili da reperire.
La psichedelia velvettiana, dolce, perturbante e claustrofobica
al tempo stesso di The 2000 Year Old
Murder, la tempesta di sax, chitarre e tastiere scatenata
in una Next To Nothing scolpita
nella roccia, il punk'n'roll stradaiolo e irresistibile di Stoneage
Cinderella, le sorprendenti svisate rootsy di una
Through Another Door cucita prendendo in prestito
le intuizioni del Neil Young più notturno e rabbioso e l'incontenibile
tappeto ritmico delle frenetiche Wig-Out
(reminiscenze celtiche a bagno nell'acido), Laughing
Boy (un arsenale ritmico di potenza inaudita),
Blue Sky Day (folk-punk con spettacoloso finale
all'insegna di una jam tra violino e mandolino) o Round
And Round continuano a splendere di un fulgore sciamanico
ereditato dalle voci di Jim Morrison e Iggy Pop, alla cui enfasi
teatrale Peno deve indubbiamente parecchio, e di un senso di sofferenza
psichica incombente, oppressivo e minaccioso ereditato dai Velvet
come dalla dolorosa poesia urbana dei rockers americani degli
anni '70 e dalle spigolature nervose del primo post-punk. A rendere
ancora più singolare l'impasto di elementi provvede senz'altro
la produzione di Younger, perfetta nel fare in modo che i brani
si raddensino intorno a toni epici da messale alternativo del
rock che tuttavia non perde occasione per agguantare una grande
melodia laddove se ne presenti una, magari già cantata da Bob
Dylan, Gram Parsons o Roger McGuinn.
Detta melodia viene inseguita soprattutto negli album successivi,
che pur mantenendosi su buoni livelli non sapranno più riproporre,
salvo occasionali zampate (ascoltate Winterland dal susseguente
Lost ['88] o The Underbelly dal terzo Every Brilliant Eye ['90]),
il bruciante furore degli inizi. Sarà anzi particolarmente infausto
l'accasamento presso la Sony, foriero di due album da dimenticare
(Trace ['93] e Sold ['95]), mentre risulterà inaspettatamente
buono il rientro in Citadel, che nel 1998 pubblicherà uno Using
My Gills As A Roadmap che resta forse il primo album di Myers
e Peno da portarsi in casa qualora già si possieda Free Dirt.
Conservavo un brutto ricordo di Doughboy Hollow,
il quarto album dei nostri, uscito per l'inglese Beggars Banquet
nel 1991, ma siccome l'etichetta aussie Aztec ha ristampato pure
quello, sempre in edizione ampliata, l'ho messo nella lista della
spesa e vi dirò, regalo e sorpresa migliori non potevo farmi.
Certo, non siamo alle altezze siderali di Free Dirt, eppure
penso si tratti ugualmente di un disco nei cui confronti il tempo
s'è rivelato assai galantuomo, e sebbene non rivoluzioni un bel
nulla, al contrario del debutto di sei anni prima, dico che se
una simile raccolta di belle canzoni (solide, robuste, intrinsecamente
classic rock e impregnate di un inequivocabile feeling "americano")
uscisse oggi ci strapperemmo i capelli in quattro e quattr'otto.
Nelle note di questa ristampa il gruppo lascia intendere che la
produzione dell'album, affidata a quel Hugh Jones già in
cabina di regia per Echo & The Bunnymen e all'epoca collaboratore
per dei Del Amitri ai primi passi, nasce come reazione al lavoro
troppo statunitense ("his stridently US production sensibility")
svolto da Jeff Eyrich su Every Brilliant Eye, ma nei fatti Doughboy
Hollow assomiglia in tutto e per tutto a un disco di college rock
americano (difatti negli USA rimane il loro best-seller) dalle
forti tentazioni classicheggianti, per nulla agressivo e molto
concentrato sui perimetri della forma-canzone. Piacerà a chi in
quegli anni impazziva per Tom Petty, REM, Dashboard Saviors, Buffalo
Tom, i Green On Red di Too Much Fun ('92) e i Soul Asylum di Grave
Dancers Union ('92), tutti nomi che non possono non tornare in
mente accostandosi al roots-pop limpido e sentimentale delle varie
Sweetheart,
The Love Song, Out In The
Rain.
Il nuovo tastierista John Hoey non ha una sola goccia del
sangue lisergico e spiritato di Brunetti, ma allineandosi al drumming
stavolta gentile di Chris Welsh e alle percussioni rootsy della
new-entry Sunil De Silva riesce comunque a trovare un buon compromesso
tra mid-tempos e raffinatezze. L'attacco violento di Doused,
il marziale e abbacinato passo celtico di The
Battle Of Stanmore o la tristezza forsennata di una
Godbless marchiata a fuoco
dagli assoli di Myers rammentano in parte i trascorsi ardori,
tuttavia il cuore dell'album va cercato nella garbata malinconia
elettrica della notturna Satisfied,
nel jingle-jangle byrdsiano della frizzante
Stop Myself e nelle soffici suggestioni elettroacustiche
di D.C., quest'ultima addolcita
dalla viola di Sarah Peet e dal violino di Amanda Brown (Go-Betweens).
L'aspetto tradizionalista di Doughboy Hollow è inoltre rafforzato
dal corredo fotografico di copertina e booklet (a cura di Paul
Tatz), con le sue immagini di automezzi vintage arrugginiti e
abbandonati colte nel bel mezzo delle periferie campestri d'Australia,
e dai 15 brani del cd aggiunto, che oltre ai vari "lati b" dei
singoli dell'epoca presenta quasi tutto il disco in versione demo
e mostra chiaramente quanto le sue 11 tracce suonassero in origine
ben più ruvide e grintose.
Ma chi ha detto che invecchiare bene significhi soltanto scimmiottare
gli entusiasmi di gioventù? Free Dirt e Doughboy Hollow
non avranno la stessa statura artistica, questo è certo, eppure
non è una ragione sufficiente per non amarli entrambi. (Gianfranco Callieri)