L'avvincente
saga dei cosiddetti outlaw, i fuorilegge che riscrissero le regole della country
music nella prima metà degli anni Settanta, andrebbe raccontata da un'altra prospettiva,
quella di chi ha lavorato nell'ombra, degli autori per autori, di quei songwriter
che hanno steso il vocabolario del genere e hanno prestato spesso le loro canzoni
ai grandi ambasciatori come Waylon Jennings. Uno di questi è stato Steve Young,
scomparso nell'indifferenza più totale nella primavera del 2016 dopo una carriera
ondivaga e parca nella produzione discografica, ma titolare di un songbook prezioso
da cui hanno attinto interpreti di prima grandezza, non solo a Nashville. Young,
come Billy joe Shaver o Lee Clayton, giusto per citare altri due colleghi sui
quali andrebbe fatta giustizia, era uno di quei cercatori d'oro del country folk
americano che preferiva suo malgrado restare dietro le quinte, troppo attaccato
alle sue canzoni e assai meno ai meccanismi del music business per arrivare ad
ottenere il vero successo. Non che non lo abbia sfiorato, strappando anche contratti
importanti con la A&M, la RCA, etichette che puntualmente si sono dimenticate
di lui, non credendo fino in fondo alle possibilità commerciali della sua musica
e trovandosi di fronte un uomo sinceramente votato all'arte dell'hobo.
La
ristampa di Seven Bridges Road, secondo album solista di Steve Young,
ampliato e corretto con tutte le registrazioni che vi hanno girato attorno nelle
stesse sessioni originali e in quelle aggiunte in seguito (sostanzialmente tre
edizioni e diciannove brani totali), è una piccola forma di risarcimento che la
Ace records mette a punto, illuminando un passaggio per nulla trascurabile dell'avventura
del country fuorilegge di quel periodo. Young approdò giovane e speranzoso in
California dalla sua nativa Georgia, con un bagaglio che sapeva di tradizione
e rock'n'roll, di folk e bluegrass, una grande versatilità e una voce tonante
e piena di grinta che gli fece guadagnare un contratto discografico, prima alla
guida degli Stone Country, quindi verso il debutto solista "Rock Salt and
Nails" del 1968, un album a suo modo già di culto che metteva in fila Gene
Clark, Gram Parsons e James Burton tra i musicisti di studio, mentre il nostro
Steve stringeva amicizia con Stephen Stills e la crema della scena folk rock losangelina.
Quasi nessuno si accorgerà di lui e il seguito, Seven Bridges Road, dovrà
attendere il 1972, quando Steve aveva già messo su famiglia e si era trasferito
nella più redditizia Nashville, in cerca di qualcuno che facesse viaggiare le
sue canzoni.
Avrà ragioni da vendere quando la stessa title track diventerà
un successo nazionale per gli Eagles e in seguito entrerà nel repertorio di mille
altri (Joan Baez e Dolly Parton, per esempio) oppure sorriderà di fronte al numero
uno toccato nelle classifiche country da Waylon Jennings con Lonesome
On'ry and Mean, brano che darà il titolo anche all'omonimo fortunatissimo
album del texano, uno dei capisaldi dell'intero movimento outlaw. Con le royalties
di queste canzoni (e di Montgomery in the Rain
e Long Way to Hollywood, che saranno incluse nel repertorio di Hank Williams
Jr.), Young camperà una vita intera o quasi, per fortuna aggiungiamo noi. Sono
tutte presenti, guarda caso, nella dozzina di composizioni dell'originale lp Seven
Bridges Road, pubblicato dalla Reprise con un certo sforzo produttivo,
mettendo in fila la crema della Nashville dell'epoca: dal piano di David Briggs
(Neil Young) al reduce di Elvis Presley, DJ Fontana, dalla pedal steel di Pete
Drake all'armonica di Charlie McCoy (Bob Dylan) c'era chi scommetteva sulla forza
penetrante dei racconti on the road di Young, una specie di Jack kerouac sudista,
una via di mezzo tra un folksinger beat e uno storyteller country, innamorato
di Woody Guthrie e Hank Williams allo stesso tempo. Seven Bridges Road sintetizza
questo epico linguaggio southern consegnando forse il disco strettamente più country
dell'autore, che negli anni successivi passarà ai toni acustici dell'ignorato
"Honky Tonk Man", pubblicato per una piccola etichetta indipendente
e tenterà di sfruttare il momento d'oro dell'ondata outlaw con i più raffinati
"Renegade Picker" e "No Place to Fall" (entrambi ristampati
qualche anno fa in un unico cd dalla Bmg).
In
Seven Bridges Road escono allo scoperto memorie e scorci della Georgia e più in
generale della strada percorsa dal musicista per arrivare a lambire il sogno della
musica da professionista: l'immortale title track, qui rallentata rispetto alle
versioni più note, sceglie le cadenze di chitarre acustiche, piano e steel per
lasciarsi trascinare dalla voce stentorea di Young, sostenuto anche da un coro
femminile. Una seconda incisione della stessa canzone, risalente al 1981 per una
successiva edizione dell'album (su Rounder), è stata inclusa dalla Ace in questa
ristampa, evidenziando gli aspetti più solenni dell'interpretazione di Young.
Del disco originale restano i primi dodici episodi, che indugiano tra il galoppo
bluegrass di una trascinante White Trash Song
e il profumi più terrigni e le cadenze roots di Begin to See Design, One
Car Funeral Procession, True Note e Many Rivers, dove
forte risuona l'influenza di icone come George Jones, una nostalgica country music
intrisa di gospel bianco e radici sudiste da cui arrivavano anche personaggi come
Gram Parsons. Tra i gioielli d'autore che lascia impressi Steve Young in questo
lavoro c'è soprattutto la citata Montgomery in the Rain,
ballata a tempo di walzer che echeggia l'epica del viandante americano, di un
città in cui passare fugacemente per richiamare un vecchio amore e tutto l'immaginario
che si trascina appresso, perfettamente allineato con la sensibilità di quella
stagione.
Di un anno successiva, l'edizione del 1972 per la Blue Canyon,
minuscola casa discografica in confronto all'originaria Reprise, tenterà di rilanciare
Seven Bridges Road con una nuova scaletta e qualche cambio in corsa, senza putroppo
ribaltare le sfortune commerciali dell'album. La Ace ripesca da quelle sessioni
(e anche dalle precedenti per la stessa Reprise, con due singoli del 1970 dove
appare persino un giovane Ry Cooder) alcuni brani minori, tra i quali spicca
una riottosa Down in the Flood, dal passo
decisamente southern rock, accanto all'honky tonk di Ballad of William Sycamore
e al rapsodico country rock da orizzonte nel deserto di Days of 49.
Con
il repertorio adatto allo spirito dei tempi, una voce che non passava inosservata
e qualità strumentali non indifferenti (Young è sempre stato chitarrista
di fulminea tecnica di derivazione bluegrass), resta ancora oggi un mistero la
mancata affermazione dell'autore. O forse no, basterebbe leggere in controluce
fra le sue canzoni per accorgersi dello spirito solitario e poco incline al compromesso
che animava Steve Young. La ristampa di Seven Bridges Road è occasione
rara per riaccendere i riflettori su un autentico pioniere dell'altro country.