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L'avvincente saga dei cosiddetti
outlaw, i fuorilegge che riscrissero le regole della country music nella
prima metà degli anni Settanta, andrebbe raccontata da un'altra prospettiva,
quella di chi ha lavorato nell'ombra, degli autori per autori, di quei
songwriter che hanno steso il vocabolario del genere e hanno prestato
spesso le loro canzoni ai grandi ambasciatori come Waylon Jennings.
Uno di questi è stato Steve Young, scomparso nell'indifferenza
più totale nella primavera del 2016 dopo una carriera ondivaga e parca
nella produzione discografica, ma titolare di un songbook prezioso da
cui hanno attinto interpreti di prima grandezza, non solo a Nashville.
Young, come Billy joe Shaver o Lee Clayton, giusto per citare altri
due colleghi sui quali andrebbe fatta giustizia, era uno di quei cercatori
d'oro del country folk americano che preferiva suo malgrado restare
dietro le quinte, troppo attaccato alle sue canzoni e assai meno ai
meccanismi del music business per arrivare ad ottenere il vero successo.
Non che non lo abbia sfiorato, strappando anche contratti importanti
con la A&M, la RCA, etichette che puntualmente si sono dimenticate di
lui, non credendo fino in fondo alle possibilità commerciali della sua
musica e trovandosi di fronte un uomo sinceramente votato all'arte dell'hobo.
Sono tutte presenti, guarda caso, nella dozzina di composizioni dell'originale lp Seven Bridges Road, pubblicato dalla Reprise con un certo sforzo produttivo, mettendo in fila la crema della Nashville dell'epoca: dal piano di David Briggs (Neil Young) al reduce di Elvis Presley, DJ Fontana, dalla pedal steel di Pete Drake all'armonica di Charlie McCoy (Bob Dylan) c'era chi scommetteva sulla forza penetrante dei racconti on the road di Young, una specie di Jack kerouac sudista, una via di mezzo tra un folksinger beat e uno storyteller country, innamorato di Woody Guthrie e Hank Williams allo stesso tempo. Seven Bridges Road sintetizza questo epico linguaggio southern consegnando forse il disco strettamente più country dell'autore, che negli anni successivi passarà ai toni acustici dell'ignorato "Honky Tonk Man", pubblicato per una piccola etichetta indipendente e tenterà di sfruttare il momento d'oro dell'ondata outlaw con i più raffinati "Renegade Picker" e "No Place to Fall" (entrambi ristampati qualche anno fa in un unico cd dalla Bmg). In
Seven Bridges Road escono allo scoperto memorie e scorci della Georgia e più in
generale della strada percorsa dal musicista per arrivare a lambire il sogno della
musica da professionista: l'immortale title track, qui rallentata rispetto alle
versioni più note, sceglie le cadenze di chitarre acustiche, piano e steel per
lasciarsi trascinare dalla voce stentorea di Young, sostenuto anche da un coro
femminile. Una seconda incisione della stessa canzone, risalente al 1981 per una
successiva edizione dell'album (su Rounder), è stata inclusa dalla Ace in questa
ristampa, evidenziando gli aspetti più solenni dell'interpretazione di Young.
Del disco originale restano i primi dodici episodi, che indugiano tra il galoppo
bluegrass di una trascinante White Trash Song
e il profumi più terrigni e le cadenze roots di Begin to See Design, One
Car Funeral Procession, True Note e Many Rivers, dove
forte risuona l'influenza di icone come George Jones, una nostalgica country music
intrisa di gospel bianco e radici sudiste da cui arrivavano anche personaggi come
Gram Parsons. Tra i gioielli d'autore che lascia impressi Steve Young in questo
lavoro c'è soprattutto la citata Montgomery in the Rain,
ballata a tempo di walzer che echeggia l'epica del viandante americano, di un
città in cui passare fugacemente per richiamare un vecchio amore e tutto l'immaginario
che si trascina appresso, perfettamente allineato con la sensibilità di quella
stagione.
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