Rod
Stewart
Atlantic Crossing (Expanded 2cd)
A Night On The Town (Expanded 2cd)
[Warner 2009]
Lo chiamavano Rod "The Mod", cioè
Rod "il sofisticato", nomignolo ovviamente piuttosto snob se usato con un ragazzetto
di Highgate, sobborgo operaio della Londra del nord, che ha sempre preferito i
campi da calcio agli studi, il rhytm'n'blues alle letture dotte, le hot legs di
una bella bionda alle riflessioni filosofiche. Eppure a Roderick David Stewart,
d'ora in poi Rod, il nick è rimasto appiccicato addosso, e anche oggi che si è
trasformato in un griffatissimo interprete di classici da salotto - il genere
di entertainer più adatto ai casinò di Las Vegas che ai club piccoli e scalcinati
- c'è sempre qualcuno che se deve parlarne non esita a rispolverare il vecchio
soprannome. Rod Stewart ha costantemente subito questo atteggiamento di
sufficienza, come se i critici avessero voluto giudicare non tanto la qualità
intrinseca dei suo lavori quanto i modi più o meno buzzurri, il lifestyle pacchiano
e sopra le righe di chi li realizzava. Talvolta hanno avuto ragione loro, i critici,
poiché da un certo punto, diciamo dalla prima metà degli anni '80, la carriera
del biondo rocker è diventata un guazzabuglio di stereotipi, cafonate, piattume
e beceraggini assortite che gli hanno garantito una fama capace di riempire gli
stadi contemporaneamente assicurandogli la perenne disistima di chi lo seguiva
da vent'anni (con punte di risentimento incurabile presso scribacchini altrimenti
assai compassati). E sebbene qualche zampata continui di tanto in tanto ad arrivare,
l'ultima fase della carriera del nostro rappresenta la logica conclusione di un
processo incontrovertibile, cominciato quando Rod, e non solo lui, s'è reso conto
che sculettare sotto una base disco era diventato molto più redditizio che interpretare
Bob Dylan o Sam Cooke. Non
va però dimenticato che quel che Rod ha licenziato tra il 1968 e il 1977 se non
è tutto oro poco ci manca. Benediciamo perciò l'intramontabile remuneratività
del cantante, che ha spinto la Warner ha realizzare una serie di ristampe inaugurata
dall'edizione cd+dvd del non troppo stagionato Unplugged... And Seated (1993),
disco all'epoca onusto di lodi (per una volta tutte meritate), e che dovrebbe
culminare nella pubblicazione di un intero box di inediti, The Rod Stewart Sessions
1971-1998, atteso per il prossimo autunno. Atlantic Crossing risale
invece al 1975 e sin dal titolo e dall'illustrazione di copertina rende conto
della trasferta americana di Rod, in parte favorita dall'intenzione di sfuggire
alle grinfie del fisco britannico, in parte dettata dalla voglia di lavorare nella
terra d'origine di quasi tutti i suoi miti musicali. E' il disco di Sailing,
la canzone che diventerà una sorta di inno nazionale in Scozia e Gran Bretagna,
ed è il primo lavoro realizzato senza far ricorso ai musicisti che avevano accompagnato
Rod dai tempi dei Faces (1969-1973) e in quasi tutti i progetti solisti realizzati
per la Mercury nella prima metà del decennio. E' anche il disco a partire dal
quale incomincia ad abbattersi sull'artista un livore critico difficilmente comprensibile,
oggi come allora. Colpa del successo di pubblico? Colpa di sonorità nel complesso
più ammorbidite del solito e tuttavia non certo accusabili di chissà quale cedimento
commerciale? Colpa degli innumerevoli pettegolezzi che circondano la vita privata
dell'artista e le sue relazioni col gentil sesso? Forse un po' tutte queste cose
insieme, o forse quel tanto di miopia che subentra quando un musicista col quale
si ritiene di intrattenere un rapporto privilegiato, ed esclusivo, si ritrova
di colpo sulla bocca di tutti.
Ma Atlantic Crossing resta un buon disco,
superbamente prodotto da Tom Dowd (all'epoca già supervisore di tutti i
migliori performers rock e jazz sulla piazza, da John Coltrane ai Coasters, da
Charlie Mingus agli Allmans, da Aretha Franklin ai Cream) e illuminato da un parterre
di musicisti dove non si sa se preferire il gusto soul degli MG's praticamente
al completo (manca ovviamente Booker T) o i fiati lussuriosi dei Memphis Horns,
le chitarre di Fred Tackett (Little Feat) e Jesse Ed Davis o la
mandola e il violino di David Lindley (senza poi dimenticare gli interventi
dei due luminari Roger Hawkins e Barry Beckett, vere e proprie colonne portanti
dei leggendari Muscle Shoals Studios dell'Alabama, al drumming e alle tastiere).
Comprende una "fast half" di brani rock che non avrebbero sfigurato nel carnet
degli Stones di qualche anno prima (Three Times Loser
è il classico rockaccio alla Faces che puzza di notti solitarie e birra
da quattro soldi, Alright For An Hour possiede
un feeling quasi reggae, All In The Name Of Rock'N'Roll
ha un titolo che è tutto un programma e Stone
Cold Sober sprizza riff fulminanti alla maniera di Keith Richards,
mentre Drift Away rilegge in tono aggressivo
il classico di Dobie Gray del 1973) e una "slow half" di ballate e carezze soul
che riuscirebbero ancora a spezzare in due il cuore di una roccia (oltre alla
citata Sailing, una Still Love You scritta
con sorprendente misura folk-rock dallo stesso Rod, gli Isley Brothers di This
Old Heart Of Mine, il Gerry Goffin di It's
Not The Spotlight e la sublime, sconfortata poesia di I
Don't Want To Talk About It, un gioiello di brano che il suo autore,
Danny Whitten dei Crazy Horse, non avrebbe purtroppo visto schizzare al numero
1 delle charts americane e inglesi). Il piatto forte della ristampa,
com'è ovvio, è costituito dal secondo cd, che dell'album originario presenta una
versione alternativa e forse persino migliore, dove la voce di Rod è meno compressa
nel missaggio dei vari strumenti (e quindi ha maggiore risalto), l'esecuzione
dei brani (compresa una primigenia Stone Cold Sober che s'intitola Too
Much Noise) suona più scarna, essenziale ed efficace, dove gli MG's
partecipano a una This Old Heart Of Mine più soffice e vellutata che mai. A completare
l'offerta si trovano tre inediti - To Love Somebody
(Bee Gees), Holy Cow (Allen Toussaint), Return
To Sender (Elvis Presley) - registrati con degli MG's grintosi quanto
nelle più gloriose produzioni Stax, i drum pipes della soave Skye Boat Song (retro
del primo singolo estratto dall'album) e, in veste di traccia nascosta, il promo
radiofonico dell'epoca.
Se gli uffici marketing dell'epoca ritengono di dover promuovere Rod puntando
sulla sua immagine di rocker glam e sensuale, di viveur instancabilmente dedito
alle gozzoviglie e ai piaceri dell'alcova, c'è anche da dire che il nostro non
fa nulla per svincolarsi dai cascami del ruolo. Di più, gli piace talmente tanto
giocare con la propria reputazione di gaudente naif che per la cover del successivo
A Night On The Town, destinato a ripetere e a sorpassare, negli
Usa, i fasti commerciali del predecessore, decide addirittura di farsi ritrarre
- un gesto, avrebbe detto Bernardino Zapponi, santificato "dal dono divino dell'inutilità",
e pertanto geniale o imperdonabile a seconda dei punti di vista - all'interno
di una riproduzione di un quadro di Pierre Auguste Renoir ("Le Bal Du Moulin De
La Galette", che si trova al Museo D'Orsay di Parigi), nientemeno. Inoltre, siccome
squadra che vince non si cambia, ecco riconfermato quasi tutto il personale di
Atlantic Crossing, solo con i fiati dei Tower Of Power a sostituire quelli
dei Memphis Horns. Ci sono di nuovo un lato di canzoni "veloci" e un lato di "lenti",
però invertiti, all'inizio i secondi (una sciccosissima parata di diminuite folkie
dove spiccano il Cat Stevens di The First Cut Is The
Deepest, la lunga The Killing Of Georgie Part
I & II e la struggente Tonight's The Night)
e poi i primi (tra essi, il rock&roll nostalgico di Pretty
Flamingo, l'errebì di Bobby Womack in Big
Bayou, l'honky-tonk rockeggiante di Hank Thompson in The
Wild Side Of Life e l'inversione di marcia della conclusiva Trade
Winds, una ballata bluesy appresa dalla scozzese Maggie Bell), entrambi
per lo più registrati in quel di Los Angeles. Sul secondo cd, il solito promo
vintage, la ruggente, beatlesiana Get Back,
due begli inediti di Stewart (Rosie e Share)
e la versione alternativa del disco, stavolta meno persuasiva rispetto a quella
di Atlantic Crossing. Poco male, perché A Night On The Town rimane un album di
ottima qualità, dotato di uno splendido equilibrio tra le classiche strutture
soul del maestro Sam Cooke e certa non svenevole eleganza pop così tipica del
periodo in cui ha visto la luce; un album dotato di quella che era, e nei casi
più fortunati resta, la qualità migliore di Rod, ovverosia la capacità di cantare
storie d'amore con lo stesso, innocente trasporto di uno Smokey Robinson o di
un James Carr, unendo al tempo stesso romanticismo esasperato (talvolta persino
smanceroso) e passione ruvida da rock'n'roller della classe operaia, Fats Domino
e Chuck Berry, stralci di autobiografia dolente e pose da consumato interprete.
Un brano come The Killing Of Georgie Part I & II merita di entrare a
pieno titolo tra le grandi composizioni rock degli anni '70: talkin'-blues e folk
urbano stilizzato da qualche parte tra John Lennon e Lou Reed (con un accenno
del Bob Dylan di Simple Twist Of Fate) per raccontare la storia di Georgie, un
amico gay dell'artista che viene ammazzato da una "New Jersey gang", col pezzo
che si trasforma da ballata semi-acustica in gospel laico e le parole autografe
di Rod che, nel descrivere un omicidio, trovano una delicatezza, un acume e una
densità nerrativa ("Another kid, a switchblade knife / He did not intend to take
his life / He just pushed his luck a little too far that night") che ancora oggi
nessuno o quasi si sognerebbe di attribuire a colui che ha sempre amato dipingersi
come un fortunato perdigiorno del rock'n'roll. Erano gli anni '70, del resto,
e certe volte si fa fatica a non rimpiangerli. Perché vi accadeva veramente di
tutto: persino che un qualsiasi buzzurro londinese scalasse le classifiche di
mezzo mondo, certo, ma anche che in quelle classifiche ci finisse con una canzone
di sette minuti dedicata all'ammazzamento di un omosessuale newyorchese. Cose
d'altri tempi, per l'appunto. (Gianfranco Callieri) www.rodstewart.com
www.wbr.com |