Erano
gli anni dell'esplosione punk, impiombata nelle parole sferzanti dei Clash di
1977 ("Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones / Nel 1977"), rispetto alle
quali ci si chiedeva come avrebbero potuto replicare gli unici interessati ancora
in attività (o, se è per questo, ancora vivi). Some Girls, insomma,
era un album atteso: doveva stabilire se gli Stones esistevano ancora o se si
erano dissolti nei ricordi di un passato mitico e irrecuperabile. Assemblato al
Pathé-Marconi Studio di Parigi tra l'ottobre e il dicembre del 1977 (con l'aggiunta
di qualche overdub nel marzo dell'anno successivo), Some Girls, subito dopo l'appena
superiore Tattoo You (1981), è il più grande album dei Rolling Stones consequenti
al capolavoro Exile On Main St. ('72), una sequenza micidiale di canzoni pressoché
perfette in cui la tipica allure stonesiana di vizio, ambiguità, sconsiderata
decadenza e fiammate r'n'r viene evocata tramite sonorità inedite e beffardi ammiccamenti
al passato. Se Jagger, da un lato, dopo gli esperimenti afrocaraibici tra funk
e reggae dell'irrisolto ma comunque notevole Black And Blue ('76), recupera una
tagliente essenzialità esecutiva costruendo il progetto intorno al nucleo primario
del gruppo (chitarre, basso e batteria), dall'altro va a cercare ispirazione nei
club newyorchesi come lo Studio 54 e gli altri santuari della nascente disco-music.
Naturalmente gli integralisti gridano allo scandalo, tanto che ancora
oggi il crossover tra rock e disco di Miss You (pezzo
gigantesco, va da sé) fa arricciare più di un naso, ma Some Girls è pura quintessenza
Stones: solo, con il dedalo delle avenues di New York in luogo delle strade inglesi,
con il soul setoso (e opportunamente stravolto) di casa Motown al posto del blues
arcaico, con il dinamismo ritmico dei latinos di East Harlem a sostituire, nello
srotolarsi delle ballate, il bagaglio del folk e del country. L'unico brano in
tutto e per tutto riconducibile agli Stones più rootsy, Far
Away Eyes, non a caso collocata verso la metà del programma, spunta
tra le schegge punk di Lies e Respectable
come un miraggio, un'allucinazione o una parodia: in mezzo a due fucilate composte
di riff assassini e tumulti inarrestabili della sezione ritmica, ecco la pedal-steel
di Ronnie Wood, il buffo trascinarsi di basso e batteria, un'andatura che
strizza l'occhio a Buck Owens e il delirante resoconto di Jagger sull'esperienza
di ritrovarsi a guidare in California ascoltando predicatori pentecostali intenti
a promettere la salvezza dell'anima previo versamento di dieci dollari.
Il
cuore dell'album, tuttavia, batte all'unisono con la cassa in 4 (Charlie Watts
all'inseguimento del Philly-sound) di Miss You, attraversata dagli assoli
scartavetrati di Richards, dal sax nervoso di Mel Collins e dall'armonica di Sugar
Blue (già collaboratore di Memphis Slim e Louisiana Red: leggenda vuole gli Stones
lo trovassero, lacero e mendicante, nella metropolitana di Parigi): ouverture
formidabile per un viaggio al termine della notte newyorchese in compagnia di
alienati, travestiti, papponi, puttane, sodomiti flamboyant tutti convergenti
al Loop, l'area di meretricio gay sulla East 53rd poi immortalata da William Friedkin
nelle immagini elettriche di Cruising. When The
Whip Comes Down, scossone rockinrollista secco e bruciante appunto
come una frustata, scende negli inferni stradaioli di Lou Reed ricorrendo alla
soggettiva di un netturbino gay ("Ero gay a New York / che significa frocio a
Los Angeles / vengo trattato dappertutto allo stesso modo"), mentre la brusca
cover di Just My Imagination (Running Away With Me) dei Tempations, qui semplicemente
Imagination, scaraventa la delicata poetica
soul del gruppo tra le mura dei bassifondi, in un tempo impazzito di chitarre
selvagge. Prima della conclusione indiavolata di Shattered,
altro manifesto di irruenza punk'n'roll, c'è spazio per il rockaccio sgangherato
e straccione di Before They Make Me Run (cantata
da Richards in un rifferama twangy che riporta ai tempi gloriosi di Exile) e,
soprattutto, per la stupenda power-ballad Beast Of Burden,
intreccio elettroacustico sopra una sezione ritmica dilatata di chiara impronta
errebì, una specie di Al Green in slow-motion sigillato da un solo perfetto di
Wood e da un groove tanto rilassato quanto irresistibile.
La carica provocatoria
di Some Girls, però, si esprime al meglio nel talkin' di nuovo alla
Lou Reed della title-track, due accordi ripetuti a catena (pare la versione originaria
durasse 23 minuti!) sopra le schitarrate di Richards e l'aplomb declamatorio di
Jagger, intento a mettere in fila una serie di stereotipi misogini sulle ragazze
di ogni nazionalità e colore (culminanti nel celeberrimo verso "Le ragazze
nere vogliono solo essere scopate tutta la notte / io non ho tutta quell'energia",
ma ce n'è anche per inglesi, francesi, cinesi, italiane etc.): il brano mette
a soqquadro le radio di America e Inghilterra, la casa distributrice prega di
rimuovere i testi dalla busta dell'ellepì (il gruppo rifiuta), il frontman rilascia
interviste da kamikaze ("Perché l'album si intitola Some Girls?", "Perché non
riusciamo a ricordare tutti i loro fottuti nomi!"), fioccano le denunce per oscenità.
Il risultato viene raggiunto: tutti ne parlano.
Nell'edizione
speciale immessa sul mercato, uno splendido box con fotografie, poster e 45 giri
d'epoca, c'è anche un bellissimo libro rilegato dove, in successione a un saggio
di Anthony DeCurtis, viene ripercorsa anche la genesi grafica della copertina
del disco, collage dei volti degli Stones adattati alla pubblicità di un parrucchiere
di Chicago in origine riportartante, oltre alle fattezze dei nostri, quelle di
cinque attrici hollywoodiane (Lucille Ball, Judy Garland, Raquel Welch, Farrah
Fawcett e Marylin Monroe) che subito minacciarono altrettante azioni legali. Nel
sontuoso cofanetto trovano spazio anche un dvd (con gli orripilanti video d'epoca
di Respectable, Far Away Eyes e Miss You, tre brani dal vivo,
pubblicità televisive, un'intervista al Mick Jagger impressionante e mummificato
dei giorni nostri e una sua vecchia apparizione al Saturday Night Live, biancovestito
e tremendamente British al fianco di un surreale Dan Aykroyd) e un intero cd di
inediti, in pratica un album alternativo fatto e finito, a dimostrazione del tipico
album "alla Stones" che il gruppo avrebbe potuto licenziare e invece, con una
certa accortezza, non pubblicò.
Meno visionario ed esplosivo del Some
Girls del '78, il suo gemello affiorato ora (nonostante alcuni brani più
volte bootlegati) percorre con sicurezza, in un divertito flusso di boogie, r'n'r
e revival cinquantesco, le fonti più profonde dell'ispirazione stonesiana, stavolta
ricondotta al linguaggio basilare del rock-blues più crudo, del rockabilly, del
country e della ballata ricoperta di polvere e ricordi. Magnifica è l'anfetamina
r'n'r di Claudine, addirittura amplificata
nello squarcio alla Chuck Berry di una Tallhassee Lassie
(riff devastante appartenuto al rocker Freddy Cannon nell'estate del '59) dove
appaiono perfino gli handclaps di John Fogerty (e infatti il pezzo è sudato, rootsy,
rockista e operaio come i migliori Creedence) e nel mid-tempo roccioso di I
Love You Too Much. L'irruvidirsi dell'anima blues porta al classico
Chicago-style della sfrigolante When You're Gone
(con Sugar Blue pronto a scodellare virtuosismi da campione del blues urbano),
all'incandescenza chitarristica della rutilante So Young
(davvero superba) e alle unghiate elettriche di una Keep
Up Blues circonfusa di zolfo (per contro la conclusiva Petrol
Blues, piccolo slot al pianoforte del solo Jagger, assorbito in un'imitazione
affettuosa di Pinetop Smith, è poco più di un congedo breve e scanzonato).
C'è
anche parecchio country, tra questi solchi: You Win Again,
splendidamente nostalgica (tanto da lasciare la curiosità per un Mick Jagger,
qui a dir poco magnifico, alle prese con un repertorio di stretta osservanza country
& western), riparte addirittura da Hank Williams, la pedal-steel squillante (Wood)
di Do You Think I Really Care? torna a omaggiare
il country-rock dell'amico Gram Parsons e il capolavoro No
Spare Parts (con Richards al piano acustico), mid-tempo malinconico
e ruffiano come solo gli Stones sanno essere. Don't Be
A Stranger è invece uno shuffle a dir poco sorprendente, chitarre acustiche
e marimbas (Bill Wyman) per un soffio di musica tra Cuba e il barrio di Los Angeles;
We Had It All, gran pezzo country-soul di
Troy Seals e Donnie Fritts portato al successo da Waylon Jennings, viene cantata
da un'impagabile Keith Richards guardando all'Elvis Presley di Always On My Mind.
Sebbene l'abitudine di intervenire a posteriori su materiali stagionati (non si
spiegano altrimenti, se non con un prodigio anagrafico gli interventi di Don Was
e Matt Fraction) resti di per sé deprecabile, la panoramica offerta dalla nuova
edizione di Some Girls, con l'ampiezza dei suoi riferimenti e delle sue vedute,
da quelle d'epoca a quelle portate alla luce soltanto adesso, mette un punto fermo
sulla capacità degli Stones targati anni '70 di cavalcare lo spirito del tempo
e risultare sempre e comunque originali, inventivi e di rottura.
Su tale
punto, poi, cala, grazie al dvd Some Girls - Live In Texas '78,
un velo di leggenda. Non c'è punkster che tenga di fronte alla mannaia rockista
calata da questi otto cavalieri dell'apocalisse (oltre ai cinque Stones ufficiali,
Doug Kershaw al violino, McLagan alle tastiere e Stewart al piano) sul pubblico
del Will Rogers Auditorium di Fort Worth la sera del 18 luglio 1978. Richards
si era appena disintossicato ma a giudicare dalle immagini sembra nel pieno di
una tossicodipendenza da rock'n'roll secco, brutale e punk (osservatelo sventrare
la Tele su una Starfucker a rotta di collo). Si tratta di un concerto affilato
e viscerale, un'ora e mezzo di sberle senza nessuna concessione all'improvvisazione
e due sole parentesi di raccoglimento, una voluttuosa Beast
Of Burden prima di affondare il coltello delle paranoie metropolitane
negli otto minuti e rotti di una sanguinaria Miss You e il countreggiare
sarcastico di Far Away Eyes (poco apprezzato,
nel suo irridere la religione, dai devoti convenuti texani) per rigenerare le
batterie e sprofondare nel lercio, sconquassante country-blues di Love
In Vain. Il set è un fuoco d'artificio costante, introdotto dai botti
di una Let It Rock, doppiata verso il finale
da un'altrettanto selvaggia Sweet Little Sixteen,
dove il r'n'r primordiale di Chuck Berry viene centrifugato dai nostri, con velocità
da manicomio, al blue-eyed punk detroitiano del primo Bob Seger.
Scatenati,
rozzi e ubriachi di radici e r'n'r suonano anche i brani di Exile, dalle assordanti
All Down The Line e Tumbling Dice fino a una Happy
in cui Richards (seguito a fatica dallo stesso Sir Mick nei chorus) sembra spezzarsi
le corde vocali a ogni strofa. Inutile parlare di qualità delle immagini (evitate,
quindi, il formato blu-ray) di fronte a una pellicola 16 mm riversata alla meno
peggio, ma credetemi, più delle specifiche tecniche contano le rasoiate della
band, le bastonate di Brown Sugar e Jumpin' Jack
Flash (due versioni tanto stringate quanto distruttive), il country
sfigurato di una Honky Tonk Woman da bettola
in preda al fracasso, l'incredibile sequenza dei brani di Some Girls, con la fanghiglia
funky di Imagination, i boati schizofrenici di When The Whip Comes Down
e i sussulti d'adrenalina di Shattered e Respectable. Some
Girls - Live In Texas '78 non sarà un manuale di buone maniere, tutt'altro,
ma dimostra ancora una volta che quella degli Stones definitivamente bolliti dopo
l'uscita di Exile è soltanto una leggenda metropolitana. L'altra leggenda, quella
vera, è scolpita nei suoni di Some Girls, il cofanetto, e nelle immagini dello
speculare dvd: racconta la storia della r'n'r band definitiva in un'apoteosi di
frenesia e turbolenza. Il loro regno, nel 1978, non era contendibile.