Neil
Young & The International Harvesters A Treasure
[Reprise 2011]
Mai
fidarsi di quello che gli artisti, o i politici, pensano di comunicare al loro
pubblico. Avete presente il Corrado Guzzanti che, rispolverando la retorica piagnona
del più istrionico Alberto Sordi, imita alla perfezione l'ex-sindaco di Roma Francesco
Rutelli, svergognandone la vicinanza al potere, gli opportunismi nascosti dietro
un paravento di tiepida opposizione? "Ma Berluscò, ma perché ce l'hai cò noi,
aò! Noi stamo a lavorà pè te, aò! Mannaggia che ingrato… A Berluscò, sò cinque
anni che te portamo l'acqua cò le orecchie, aò, ma che ce voi, pure la scorza
de limone?" Ecco, si può dire che nel 1985, l'anno da cui provengono le registrazioni
live raccolte in questo A Treasure, la credibilità di Neil Young
come artista fosse più o meno paragonabile a quella di Rutelli nelle vesti
di leader antiberlusconiano. Stagioni e stagioni di dischi sbagliati, con una
sequenza di porcherie che, dal 1982 di Trans al 1987 di Life, dicevano di un musicista
sbiadito, sclerotico, incoerente: i cinque album del famigerato "periodo Geffen",
quando l'allora casa discografica del nostro, esasperata, arrivò persino a fargli
causa, accusandolo di dolo premeditato nella pubblicazione di album "non rappresentativi"
del suo status. Abbiamo appreso poi che quelle opere, pur confuse e balbettanti,
rappresentavano un tentativo, da parte di Young, di comunicare con i propri cari,
saldare qualche debito col passato, scrollarsi di dosso i fantasmi dei decenni
precedenti.
Nessuno stupore: per Young è sempre valso il principio di
Ernest Hemingway "scrivi soltanto di ciò che conosci", metti in musica quello
che ti sta a cuore. E se oggi, grazie al flusso ininterrotto di informazioni proveniente
dalla rete, si può coltivare l'illusione di conoscere tutto, non sembra poi così
balzana l'idea che negli anni '80, per fare i conti con un po' di vicende personali,
Young sentisse il bisogno di sporcarsi le mani con parecchie opere semplicemente
brutte ma in ogni caso determinanti nel portare il proprio contributo alla teoria
di una scrittura come testimonianza, traccia musicale di un'esperienza viva e
vissuta. Fu sempre Hemingway, rispondendo a Dorothy Parker, che in un'intervista
del '29 gli chiedeva cosa intendesse con l'uso così frequente del termine "guts"
(stomaco, coraggio, capacità di gestire e domare il pericolo), a utilizzare un'espressione
poi diventata celebre: "grace under pressure", grazia sotto pressione, l'inclinazione,
cioè, a mantenere stile e controllo anche sotto l'insostenibile pressione esercitata
dai rovesci della vita. Scopriamo ora che la "grazia" in questione, del tutto
scomparsa dagli album, Young l'aveva mantenuta intatta durante l'intensa attività
live del periodo.
Fa quasi tenerezza accorgersi di quanto fossero riusciti
e trascinanti i concerti, qui saccheggiati, del tour diOld Ways(1985), forse il frutto migliore del disgraziatissimo ciclo Geffen e nondimeno
uno degli album più fiacchi mai consegnati alle stampe dal canadese: dove li tenevi,
questi pezzi (sei inediti in tutto), Neil? Dove li avevi sepolti, questi arrangiamenti?
Cosa ti ha spinto a chiamare Amber Jean -
il nome della tua terza figlia (anch'essa epilettica, come il papà) - il country-rock
travolgente e irresistibile che apre questa raccolta di spezzoni, e poi a nasconderlo
per quasi trent'anni? Non lo sappiamo, né lo sapremo mai, ma finalmente possiamo
dire di avere tra le mani quel che davvero Young poteva intendere per country,
una musica delle radici americane sanguigna e vibrante, influenzata da Bob Wills
e dalla sensibilità canuck del nostro.
Sia nelle riletture dei Buffalo
Springfield (Flying On The Ground Is Wrong)
sia nei ripescaggi da altri dischi poco compresi (Motor
City e Southern Pacific provengono
entrambe da Re*Ac*Tor ['81], eppure il modo in cui rispettivamente passano da
un'ebetudine pseudo metal a una tracimazione di sgargiante honky-tonk e a un'affresco
di country gotico alla maniera dei Grateful Dead ha del miracoloso), il roots-rock
formato Neil Young non ha mai suonato così bene e, soprattutto, mai ha mostrato
una simile competenza nel bilanciare antico e moderno, arcaismi e fughe in avanti.
I musicisti coinvolti fanno la loro parte, e del resto, quando si può contare
sulla sei corde di Ben Keith (chitarrista, tra gli altri, di Patsy Cline),
sul piano di Hargus "Pig" Robbins (sideman di Bob Dylan, Loretta Lynn, Merle Haggard,
George Jones etc.), il violino elettrico di Rufus Thibodeaux (decano della scena
cajun e spalla insostituibile di Lefty Frizzell e Slim Harpo) o l'organo di Spooner
Oldham (in pratica uno degli inventori del country-soul dell'Alabama, tastierista
per i maggiori successi di Percy Sledge e Aretha Franklin), per l'occasione rinominati
International Harvesters, si scivola sul sicuro. Il country di Neil Young,
come suggerisce l'immagine di copertina, profuma di grandi spazi, grandi cieli
e grandi paesaggi, ma anche di lavoro, fatica, distensione dopo giornate di sforzi.
Al di là di certe eccezioni, rappresentate per esempio dalla spettrale
sarabanda elettrica di Grey Riders (un pezzo
di marca 100% Crazy Horse, se vogliamo ancor più pepati da un sentore di necromanzia
che scomoda addirittura i Gun Club di Jeffrey Lee Pierce) o dalla viscerale country-rock-ballad
Nothing Is Perfect (tutta giocata sul dialogo
tra le volute d'organo e le harmonies spettacolari di Matraca Berg e Tracy Nelson),
i brani rimandano a un'idea di hillbilly rockeggiante, incentrato sullo sbuffare
di una sezione ritmica precisa quanto un metronomo. Se Are
You Ready For The Country? sembra suonata dai Texas Playboys e se Soul
Of A Woman assomiglia a un blues strappamutande di Bobby Bland, il
loro punto cruciale rimane comunque il ritmo, la sua associazione a uno stato
mentale in perenne movimento, quasi a suggerire non tanto l'importanza del viaggio
in sé quanto la necessità ineludibile dello spostamento.
In fondo, Neil
Young è pur sempre l'artista che come pseudonimo ha scelto "Shakey" (tremolante,
nervoso, sfuggente). A Treasure è tutto tranne che un atto di resipiscenza
tardiva. Semmai l'ennesima attestazione, da parte di Young, di quanto sia difficile,
per un artista, nonostante il dolore e l'incertezza, morire. E di quanto, dopotutto,
lo sia vivere. (Gianfranco
Callieri)