Guy
Clark That
Old Time Feeling: in ricordo di un maestro texano
di
Fabio Cerbone
Guy
Charles Clark Monahans, Texas, 6 novembre 1941 Nashville, Tennessee, 17
maggio 2016
“It’s
a really tough thing to get up every day and write, and come up with something
that is really good work. And it doesn’t always happen. But some days, there it
is. All you gotta do is have your pencil sharp. And a big eraser". (Guy
Clark)
Ancora prima di incidere il suo esordio discografico, Guy Clark
era già una specie di leggenda. Con la sua musica non stava soltanto costruendo
una carriera, ma forgiando un mondo di note, parole e personaggi che la generazione
successiva di musicisti seguirà come un sentiero sul quale camminare sicura. Di
ritorno da un soggiorno "complicato" in California, dove nei primi anni
Settanta sembrava che tutti i songwriter dovessero cercare fortuna, ottenne un
contratto con la RCA e nel 1975 incise l’album Old No.1. Conteneva tutto
ciò che le sue canzoni avrebbero raccontato per un’intera carriera: l’immutabile
dignità della vita e dei suoi protagonisti, a cominciare dai più umili. I versi
si popolavano di cowboy e prostitute, carpentieri e marinai, agricoltori e cameriere,
ubriaconi e perdenti d’ogni risma, descrivendo le loro esistenze in pochi tratti.
Uno dei primi ad accorgersi del talento di Clark fu il compagno di sbronze
Jerry Jeff Walker, che gli chiese in prestito Desperados Waiting For a Train
e nel 1973 la trasformò in un piccolo cavallo di battaglia dei suoi concerti.
Era un racconto, in parte autobiografico, costruito sulla figura dell'amante di
sua nonna e legato alla gioventù di Guy, passata nel deserto del Texas più desolato,
fra le cosidette flatlands. Ci vollero due anni, un altro paio di cover e alla
fine il brano tornò nelle mani del legittimo proprietario, proprio in quel disco,
Old No.1, che metteva insieme i migliori musicisti sulla piazza (c’era gente come
Reggie Young, che aveva suonato con Elvis Presley) con un manipolo di giovani
promesse (per esempio Emmylou Harris, che cantava ai cori), per offrire la country
music più profonda e dal gusto letterario che si fosse mai sentita.
Guy
Clark e la compagna Susanna si erano trasferiti a Nashville nei primi anni Settanta,
scappando dalla vita un po’ dissoluta che facevano a San Francisco. Quel luogo
era diventato un rifugio per ribelli, folksinger e vagabondi, gente che immaginava
la canzone americana con l’atteggiamento libertario di un nuovo rinascimento.
Clark era il pianeta principale e intorno a lui gravitavano i vari satelliti:
Steve Earle, John Hiatt, Rodney Crowell, Lyle Lovett e un’altra mezza dozzina
di talenti, per lo più texani, che presto ridaranno slancio a tutta la scena musicale
della città. Un altro artista, nella sua posizione, avrebbe raccolto gli onori,
magari trasformandosi in un talent scout per l’industria musicale. Guy Clark invece
ha continuato con naturalezza a scrivere canzoni, come l’artigiano che è stato
fin dal principio. Cominciò da ragazzo, nell’hotel che la nonna gestiva a Monahans,
l’unico in quella sperduta cittadina petrolifera, e proseguì quando la famiglia
decise di trasferirsi sul Golfo del Messico, lì dove imparò a costruire barche
e a lavorare il legno, diventando un liutaio.
La musica per lui ha sempre
richiesto la stessa pazienza: “Mi immagino che il momento giusto per registrare
un disco sia quando hai pronte dieci buone canzoni, qualsiasi sia il tempo che
ti ci è voluto per scriverle”.
Pochi dischi hanno ridefinito l'arte della canzone d'autore
americana come Old
No.1, passaggio
obbligato per intere generazioni di songwriter americani che hanno voluto confrontarsi
con la materia della tradizione nella sua più pura essenza narrativa. Perché
di questo stiamo parlando quando ci accostiamo al lavoro di un artigiano come
Guy Clark,
che le chitarre le costruiva davvero e le canzoni le scavava con una penna che
era uno scalpello, legno vivo e grezzo da cui ricavare lezioni di vita, venature
e accordi che indicavano il passaggio del tempo sulla storia di uomini e donne
gettati nel grande, inospitale spazio americano, abbandonati al loro destino.
La scenaggiatura country folk in cui erano calate le sue ballate non era un semplice
discorso di genere e per il genere, ma qualcosa che utilizzava un linguaggio comune
di leggende e suoni per raccontare il suo angolo di Texas, le facce che aveva
conosciuto sulla strada, quelle che gli avevano tramandato. Poesia e vita vissuta,
come l'amico inseparabile Townes Van Zandt, magari con un briciolo di disciplina
in più, che gli ha salvato l'esistenza per molti anni, nonostante i duri
colpi, gli errori e le sbandate non siano mai mancate.
Nel 1975 Nashville
era come "Parigi negli anni 20" diceva Guy, che era approdato in città
con la credibilità di un veterano, autore per autori già sulla bocca
di tutti e guardato a vista dagli editori più importanti del cosiddetto
Music Row. Si viveva dentro una sorta di rinascimento dove la ribellione incontrava
l'estabilishment, dove Bob Dylan aveva messo radici nelle canzoni di Hank Williams,
dove la controcultura si era accodata al passo della tradizione. Nella sua nuova
dimora in Tennessse Clark e l'amata e paziente moglie Susanna, a sua volta artista
e figura determinante nell'ispirazione di Guy, ospitavano fuorilegge e giovani
teppisti, tenevano a battesimo giovani talenti come Steve Earle (che nel disco
ci finì ai cori, insieme a Rodney Crowell, allora sconosciute comparse),
insegnavano i segreti del mestiere tra un bicchiere di whiskey, un aneddoto sul
Texas e una vecchia canzone dimenticata.
Old
No.1 suona
ancora oggi un disco di una bellezza immacolata proprio per questa sua dimensione
mitologica che lo avvolge, come se fosse sempre esistito, come se fosse già
nato "classico" e collocato fuori del tempo. Ed è un miracolo
che appartiene a pochissimi dischi, certamente a molti di quell'epoca d'oro dell'american
music, tempo di outlaw e rinnegati, di giocatori d'azzardo e semplici figli di
puttana: vengono in mente "Red Headed Stranger" di Willie Nelson,
"Live at The Old Quarter" di Townes Van Zandt, l'omonimo
debutto di John Prine o
"Lubbock" di Terry Allen, ognuno a suo modo un romanzo, un mondo
perfettamente indipendente e solitario, per questo americano nella sua quintessenza,
"rivoluzionari" nel restituire senso alla memoria di un canzone che
troppo spesso aveva deviato verso i lustrini e l'imbellettamento artificiale del
music business.
Le fondamenta di tutti i futuri storyteller americani,
di qualsiasi disco che abbia cercato di narrare in musica, sono da ricercare nella
desolazione di Desperados Waiting for a Train, la canzone che immortalava
il Texas polveroso delle Sandhills da cui proveniva la famiglia di Guy Clark;
nel racconto del fallimento di L.A. Freeway; nella nostalgia di That
Old Time Feeling; nella
disperata ricerca di libertà di She
Ain't Goin' Nowhere; nei ritratti fra memoria e short stories di Rita Ballou
e Texas-1947;
nell'abbandono di Let Him Roll.
Che poi il suono di Old No.1 fosse anche di una adamantina purezza country è
in fondo un dettaglio che non andrebbe neppure ribadito: a leggere la sfilza di
gregari e prime stelle che la RCA mise insieme per l'esordiente Guy Clark c'era
da svenire, tra una mezza dozzina di "scagnozzi" che avevano prestato
servizio con il King Elvis in persona, e gente come Emmylou Harris, Mickey Raphael
o David Briggs, che conosceva il confine sottile fra canzone folk e tradizione
country, tra nuova e vecchia guardia.
Ci credereste che Old No.1 non vendette
nulla (o quasi) in quel 1975? Niente di più facile... a essere cinici.
Ma una cosa deve essere altrettanto chiara: per quante poche copie abbia venduto,
a quarantuno anni di distanza tutti quelli che lo ascoltarono almeno una volta,
imbracciarono poi una chitarra e cominciarono a scrivere una canzone.