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Ray Charles
La prossima volta il fuoco: Ray Charles e il blues dell’uomo bianco

- a cura di Gianfranco Callieri -

Era l’aprile del 1962 quando arrivò nei negozi, per una volta senza battage pubblicitario o quasi, quello che sarebbe diventato, nell’ordine, l’album più venduto tra quelli sino a quel momento realizzati da artisti di colore, uno dei dischi country (diciamo così) più fortunati di sempre e il primo lavoro, nella storia della musica registrata, a polverizzare 500'000 unità in meno di tre mesi. Ai tempi, benché moltissimi afroamericani fossero cresciuti ascoltando country (soprattutto al Sud), le barriere razziali tra i generi, in grado anche di condizionarne la diffusione e la ricezione, erano ancora ben visibili. Ciò nonostante, tutti sapevano chi fosse Ray Charles Robinson da Albany, Georgia, perché il pianista - cieco dall’età di cinque anni a causa di un glaucoma non trattato - aveva nel decennio precedente consolidato la propria fama di "agitatore" dei generi grazie a una serie di 45 e 33 giri, targati Atlantic, dove gospel, jazz, blues e musiche latine, tutte sbriciolate nel fraseggio movimentato del suo strumento, si rimescolavano all’interno di un perenne tour-de-force espressivo.

Forte del principesco contratto da poco siglato con la ABC-Paramount, e confortato dall’ottimo riscontro nel 1959 ottenuto dalla sua rivisitazione della I’m Moving On di Hank Snow (tradotta in un caleidoscopio di percussioni latineggianti eppure accolta con grande entusiasmo in varie classifiche di settore), l’artista cresciuto ascoltando le musiche ecclesiastiche della sua comunità e appunto tonnellate di canzoni da hillbilly volle concedersi la libertà di fare quel che nessuno (tranne, forse, Charley Pride) aveva fin lì tentato, ossia interpretare il country dalla prospettiva di un artista R&B. E se col senno di poi può sembrare esagerato sottolineare la straordinaria importanza di una simile operazione all’interno di una società in cui i DJ delle stazioni del Sud ancora tremavano all’idea di trasmettere canzoni country cantate da un nero, fu d’altronde proprio in virtù di quel disco, come avrebbe sostenuto molti anni più tardi Robert Christgau - il "decano" del giornalismo rock a stelle e strisce - in un articolo pubblicato su Rolling Stone, che "la dizione genuina, la grinta campagnola, l’umorismo straccione e l’emotività esasperata di Charles divennero di colpo la procedura standard della musica americana, senza distinzione di razza".

Il disco di cui stiamo parlando si intitolava Modern Sounds In Country And Western Music (1962), venne incensato dalla critica, registrò inauditi sfracelli commerciali e viene ristampato oggi, assieme a tre dei suoi seguiti e a una nuova raccolta tematica, dalla Tangerine, l’etichetta californiana di proprietà dello stesso musicista nonché patrocinatrice di tutti i progetti discografici della Ray Charles Foundation. "Qui c’è un tizio di colore alle prese con la più bianca delle musiche possibili, riletta nel modo in assoluto più nero proprio mentre il movimento per i diritti civili sta scatenando l’inferno": così si esprimeva, riguardo ai contenuti dell’album, Billy Joel, e ancora non ci sono parole più efficaci per descrivere il senso di abbandono, in realtà molto errebì e ben poco rurale, adoperato da Charles nel sostituire gli archi del cosiddetto "suono di Nashville" con lo smalto metropolitano di un’orchestra composta da mestieranti newyorchesi, il poderoso groove su cui si srotolano le parafrasi da Hank Williams, le cascate di soul e swing pronte a travolgere prototipi honky-tonk etichettati dal musicista come "blues dell’uomo bianco" e qui trascinati in una peculiare atmosfera a metà strada tra i velluti d’un teatro di Broadway e il tanfo di un juke-joint sperduto lungo qualche strada provinciale del profondo Sud.

Per quanto il suo artefice ne abbia sempre sminuito la valenza politica, Charles di certo non ignorava che Modern Sounds In Country And Western Music sarebbe uscito nella stagione in cui i bianchi del Mississippi avevano iniziato a chiedere, tramite proteste insistenti, di non consentire, nelle scuole superiori e nelle università, l’integrazione tra studenti dalla pelle di colore diverso. Il suo trattare It Makes No Difference Now (Jimmie Davis) attraverso i parametri del rock and roll, o il ritmo febbricitante e pestato impresso su Half As Much (resa celebre da Hank Williams), oppure ancora l’arrangiamento in ubriacatura fiatistica dell’oscura Born To Lose, ridicolizzavano i cascami di una società dove i cessi erano ancora separati poiché Charles sapeva che, se tutti avevano bisogno di pisciare, tutti avevano anche voglia di ballare. Magari di stringersi in un lentaccio alla I Can’t Stop Loving You (Don Gibson) o I Love You So Much It Hurts (Floyd Tillman), puro pop americano, trasversale e universale, irresistibile sia per i bianchi sia per i neri.

Le vendite del primo volume, nell’ordine del milione di copie, ne incentivarono un secondo, pubblicato a pochi mesi di distanza e non meno interessante del predecessore sebbene, nel complesso, non altrettanto dirompente. Anche se poi, a ben vedere, l’unico neo di Modern Sounds In Country And Western, Vol. 2 (1962) era quello di separare in maniera troppo decisa le ballate, tutte riunite in un lato B confezionato ricorrendo a un’orchestra hollywoodiana e a un coro, dai brani più movimentati, concentrati altresì in un lato A dominato da una big-band e dalle voci delle Raelettes, coriste di fiducia del nostro. Premessa questa scelta discutibile, l’esplosione di R&B intenta a consumarsi in Don’t Tell Me Your Troubles (Don Gibson), You Are My Sunshine (Jimmie Davis) e Midnight (Red Foley), o di riflesso il rapinoso shining orchestrale, da fabbrica dei sogni di celluloide, della devastante Take These Chains From My Heart o dell’altrettanto dolorosa Hang Your Head In Shame, recavano ancora una volta numerosi indizi di immortalità, soprattutto disseminati utilizzando l’espressività urbana di jazz e soul (evidentissima in una Your Cheating Heart in anticipo di una decina d’anni sulle pietre miliari di casa Motown) per trapiantare le radici del repertorio oggetto di revisione nel "canzoniere americano" della Tin Pan Alley.

Osservato senza le aspettative di allora, sottoposto a uno sguardo più distaccato, anche Country And Western Meets Rhythm And Blues (1965), in certe edizioni conosciuto come Together Again per l’omonima, spettacolare parafrasi del brano di Buck Owens in esso contenuta, svela tutte le sue virtù. Non solo quelle inerenti la necessità dell’autore di far cassa tornando sul "luogo del delitto" (di questo lo si accusò nella seconda metà dei ’60), bensì quelle relative a una superba disinvoltura strumentale (Charles registrava per la prima volta nel suo studio RPM International, progettato da lui e dal leale impresario Joe Adams in quel di Los Angeles) tale da renderne la levigata oasi soul - adoperati nella confezione, il solo pianoforte del titolare, archi e corali - assolutamente incantevole. Negli episodi più spumeggianti, tra i quali è impossibile non citare l’autografa Please Forgive And Forget o la Watch It Baby di Percy Mayfield, come in quelli riservati alla negritudine di un miagolìo gospel perfettamente in grado di cancellare il retaggio bucolico degli archetipi (si ascolti la Blue Moon Of Kentucky di Bill Monroe, eccezionale).

Se c’è un personaggio dell’epoca cui a questo punto non può essere negata la menzione, questi è il produttore, trombettista e arrangiatore Sid Feller, ai controlli di tutte e tre le opere poc’anzi descritte benché egli - ironia della sorte - fosse alquanto scettico circa la volontà, da parte del suo protetto, di cimentarsi con un repertorio country. E tuttavia, avendo Charles sempre asserito "se a me chiamano genio, allora Sid Feller è Einstein", non si può non apprezzare la delicatezza, l’eleganza, il calore e il feeling R&B con cui l’uomo seppe mettersi al servizio di questi brani, fermandosi sempre un passo prima di cadere nella ridondanza, misurando gli interventi, circondando la voce affranta del pianista con scenografie vocali e strumentali elaborate con la sapiente pazienza degli artigiani di un tempo.

I Can't Stop Loving You (Dick Cavett Show 1972) Ring of Fire (Johnny Cash Show, 1970)

Nell’ancora successivo Crying Time (1966), il ruolo di Feller venne assunto dal manager Joe Adams, al quale d’altronde non occorse fare molto altro se non rispettare le scelte del predecessore. Le sedute d’incisione furono nondimeno tumultuose, perché si trattò del primo disco messo in piedi da Charles dopo essersi disintossicato da un consumo ventennale di eroina, in parte rimpiazzata (non subito) con un po’ d’erba e lunghissime, competitive partite a scacchi. Difficile indovinarlo, comunque, basandosi sul sarcasmo dell’umoristica Peace Of Mind, sul sentimentalismo asciutto della dolente No Use Crying o sull’organo elettrico di Billy Preston che ascoltiamo nei tre minuti della selvaggia Let’s Go Get Stoned, quest’ultima una rivendicazione del piacere (ir)responsabile di bere in compagnia. Molto più cupa, disperata e tendente a un country-soul dai riflessi dark l’ideale seconda facciata, con la discesa agli inferi di Drifting Blues (Johnny Moore) e Don’t You Think I Ought To Know (appartenuta a Ella Fitzgerald seppur divulgata nella cultura popolare, in formato doo-wop, dagli Orioles idolatrati da Paul Simon) appena temperata dal morbido errebì di Percy Mayfield, autore dell’amara We Don’t See Eye To Eye e dell’affresco antirazzista di You’re In For A Big Surprise.

Per molti, Crying Time sarebbe rimasto l’ultimo album davvero indispensabile di Ray Charles, che da quel momento in poi avrebbe esperito una sfacciata svolta mercantile e nei rari casi di ritorno al "blues dell’uomo bianco" (affrontato per esempio, ma in termini eufemisticamente poco ispirati, nel terribile Love Country Style del 1970) altro non avrebbe fatto se non confermare le più severe diagnosi di declino artistico (sarebbero in realtà da salvare, in anticipo sui disastrosi lavori su Warner e Columbia degli anni ’80 e ’90, i due o tre dischi di puro jazz consegnati alle stampe nel decennio precedente, anche se questa, come si dice, è un’altra storia). La nuova antologia Best Of Country & Western (Tangerine Records, 2024) si spinge ben oltre il giro di boa del ’66, includendo al suo interno, oltre a una generosa e ben ponderata selezione dai lavori di sessant’anni fa, la Ring Of Fire (Johnny Cash) propulsa dal basso elettrico della grande Carol Kaye, la Do I Ever Cross Your Mind del 1984 poi rifatta (post-mortem) con Bonnie Raitt, That Lucky Old Sun (dal mezzo capolavoro Ingredients In A Recipe For Soul del 1963) e Seven Spanish Angels, spiazzante sebbene fortunatissimo omaggio al tejano di Marty Robbins prodotto da Billy Sherrill, cantato con Willie Nelson e tratto dal modestissimo Friendship del 1984 (invecchiato male il disco, un po’ meglio la canzone).

Ma non c’è bisogno di andare così in là con le stagioni per farsi sedurre, un’altra volta ancora, dalla svolta country-soul di Ray Charles: l’aura della sua voce roca, brutale e suggestiva, l’irrequietezza del suo muoversi tra ricordi di un’antica povertà rurale (non dimenticò mai l’annegamento del fratello minore in un bacile di legno) e l’evocativa sensualità notturna dei centri urbani, il suo slancio ermeneutico nei confronti di una tradizione ripudiata da tanti colleghi, restano per sempre, nonostante le mille delusioni poi succedutesi in una seconda parte di carriera mai esemplare, attaccati alle pelle. Fino a trasfigurarsi in un unicum assoluto della musica novecentesca, in un genere a se stante da cui emana ancora, come diceva qualcuno, "l’incanto delle regioni irreali".

Discografia:

Modern Sounds In Country And Western Music
Modern Sounds In Country And Western Music, Vol.2
Country And Western Meets Rhythm And Blues
Crying Time
Best Of Country & Western

(RCF/Tangerine, 2024 )


 

info@rootshighway.it