Jingle
Jangle Morning The
1960s U.S. Folk-Rock Explosion
- a cura di Marco Denti -
AA.VV. Jingle
Jangle Morning The 1960s U.S. Folk Rock Explosion [Straberry
Records/ Cherry Red 2025]
Ci
sono un paio di libri di Richie Unterberger, che
naturalmente scrive anche le note di copertina,
alla fonte di Jingle Jangle Morning. The
1960s U.S. Folk-Rock Explosion. Il primo,
in parte richiamato anche nel sottotitolo, è
Turn! Turn! Turn!: The 1960s Folk-Rock Revolution
seguito poi da Eight Miles High: Folk-Rock’s
Flight from Haight-Ashbury to Woodstock. Insieme
raccontano una lunga stagione irripetibile, con
un repertorio meraviglioso e celebrato a più riprese,
ma non è sempre stato così. Il folk-rock americano
è cresciuto in un contesto contraddittorio e intricato
e le valutazioni oscillavano lungo una vasta gamma
di sensazioni. Sentite la pungente opinione di
Paul Nelson: “Subdolo nella sua eccessiva ingenuità,
comodamente collocato su posizioni scomode solo
in apparenza, col senno del poi il folk-rock non
sembra né abbastanza impegnato né abbastanza individualistico
per poter competere con la magia monolitica del
folk e del rock presi separatamente”. Il giudizio
è lapidario e con ogni probabilità risente delle
idiosincrasie dell’epoca, ma se dobbiamo attribuire
uno scopo a Jingle Jangle Morning è che
ci ricorda una delle rare volte che la musica
ha avuto una rilevanza sociale e storica ben oltre
l’intrattenimento. Non riguarda i benefit, i raduni
oceanici o le manifestazioni più o meno ispirate.
Si tratta della colonna sonora, e qualcosa di
più, di un movimento che ha inciso, a tutti gli
effetti, contro la guerra e per i diritti civili,
o in generale per vedere l’umanità collocarsi
in un modo diverso. Per queste cose ci voleva
uno strumento speciale e la chitarra (acustica
o elettrica) non era abbastanza. Serviva una Rickenbacker.
C’è qualcosa di misterioso e celestiale nel suo
tintinnio, ma comunque aveva bisogno di un luogo
da cui decollare. Occorreva una canzone. Ne servivano
tante.
Mr. Tambourine Man
è la svolta e questo è un fatto, come dovrebbe
essere noto a tutti. Uno spunto in più viene dallo
scrittore Clifford Thurlow che spiegava a modo
suo l’incantesimo di quell’incipit sonoro: “In
the jingle-jangle morning I’ll come following
you”. Amo questo verso. Mi ha sempre incuriosito,
ma non ho mai saputo cosa significasse. Ora lo
so. Non significa niente. Le parole sono il significato.
Sono belle, melodiche, avvincenti. Ci siamo tutti
svegliati nel jingle jangle mattutino incerti
su cosa porterà il giorno e abbiamo sentito quel
bisogno improvviso e pressante di seguire i nostri
sogni, il nostro amante, il nostro destino”. È
un bell’inizio, che Bud Scoppa premiava così:
“La canzone dei Byrds fu forse la carta più
originale del mazzo: controllata e ambigua in
un modo che si allontanava dal prototipo dylaniano,
ma anche seducente e suggestiva; quasi un invito,
per quelli che sapevano leggere tra le righe,
a entrare a far parte di una mistica e segreta
controcultura”. È una canzone che, da sola,
ha definito un’epoca e non sorprende, quindi,
che sia messa proprio all’inizio di Jingle
Jangle Morning. È giusto perché, come
diceva Lillian Roxon nella sua Rock Encyclopedia,
“i Byrds erano diversi. I Byrds erano mistici
e santi. I Byrds non potevano sbagliare”. Infatti.
Tim
Buckley - No Man Can Find the War (1967)
Simon
& Garfunkel - Sound Of Silence (1965)
A
seguire i capisaldi ci sono tutti, a partire da
Dylan e la sua versione della svolta elettrica
in Subterranean Homesick Blues che, in
Jingle Jangle Morning, arriva subito dopo
Mr. Tambourine Man. Di libri per lui ne sono
stati scritti un’infinità e ancora non bastano.
La sua figura, tra succedanei, imitatori e discendenti
aleggia in tutti questi tre dischi densi e abbondanti.
Detto di Dylan, uno snodo indicativo, per quanto
conosciuto, arriva poco più avanti, grazie alla
premiata coppia Simon & Garfunkel. I significati
reconditi sussurrati in The
Sound of Silence ci ricordano che spesso
le motivazioni introspettive e quelle pubbliche
coincidevano. La sua collocazione in Jingle
Jangle Morning fa risaltare paure e desideri
espressi in forma di canzoni, scritte da songwriter
ebbri di sogni e di speranze, di incubi e di timori.
Sarebbero finiti sui testi scolastici per aver
contribuito a porre fine a una guerra improbabile,
crudele e assurda.
Il
Vietnam è il convitato di pietra di Jingle
Jangle Morning e non potrebbe essere diversamente.
Per dirla con Andrew Krepinevich, un analista
militare, non un hippie con i fiori tra i capelli
e la Rickenbacker a portata di mano, era “la
guerra sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento
sbagliato, con l’esercito sbagliato”. Con
il danno ormai compiuto e l’elaborazione dei lutti
in corso, diventerà evidente che “il Vietnam consumò
l’America per la maggior parte degli anni Sessanta
e Settanta. Distrusse la presidenza di Lyndon
Johnson e ossessionò quella di Richard Nixon.
Generò una massiccia protesta contro la guerra
che, dopo gli assassini del 1968 del leader dei
diritti civili Martin Luther King e del senatore
Robert F. Kennedy, divenne un sollevamento generale
contro le classi dirigenti americane, con tumulti
e devastazioni in città, campus universitari e
a Washington”. L’analisi è di Andrew Roberts e
del generale David Petraeus in L’arte della
guerra contemporanea: se ne sono accorti anche
loro, ma avrebbero dovuto ascoltare Tim Buckley
con No Man Can Find The
War dove cantava, con quella voce indimenticabile:
“La guerra è dall’altra parte del mare? La guerra
è oltre al cielo? Siamo tutti quanti diventati
ciechi: la guerra è dentro la vostra mente?”.
La visione musicale di quel movimento è in gran
parte raccontato in Jingle Jangle Morning
ed è ancora valida oggi. Tra i protagonisti indiscutibili
bisogna ricordare Phil Ochs con I Ain’t Marching
Anymore, John Stewart & Buffy Ford con Draft
Age e non poteva mancare For
What It’s Worth dei Buffalo Springfield,
una canzone che è ancora oggi attualissima nel
suo ribadire che, sì, “è meglio fermarsi”.
Non
erano gli unici a dirlo. Nel 1965 il poeta Robert
Lowell metteva sul piatto un disco di Joan Baez
e sosteneva: “Nondimeno mi trovo a seguire
la nostra attuale politica estera con la più grande
costernazione e sfiducia”. Il suo rifiuto
all’invito a partecipare al festival delle arti
alla Casa Bianca, fu il prototipo dei gesti pacifisti
e antimilitaristi, ma la guerra non era l’unico
problema. L’impressione era, come scrisse William
Carlos Williams, citato proprio da Robert Lowell,
che “non ci fosse nessuno a guidare la macchina”.
Non c’era una direzione che portasse a casa, e
questo l’aveva già detto qualcuno, ma come scriveva
l’acuto Tom Wolfe: “Frattanto in America, la gente
comune si staccava dalla società convenzionale,
dalla famiglia, dal vicinato e dalla comunità,
e creava modi a se stanti. Questo fenomeno non
aveva alcun parallelo nella storia, specie considerandone
l’ampiezza”. Lo spettro cromatico di Jingle
Jangle Morning sembra adeguarsi. Si parla
di Gordon Lightfoot, David Blue, Ian & Sylvia,
Steve Young, P. F. Sloan, Arlo Guthrie, Tom Paxton,
Richie Havens, che meriterebbe di essere ricordato
più spesso, giusto perché ribadiva che sarà sempre
“una strada lunga e difficile”, ma anche di Johnny
Winter o Dion con Baby, I’m In The Mood For
You ma anche (e soprattutto) Abraham,
Martin And John nonché Fred Neil con
l’immancabile Dolphins
e Scott McKenzie con San Francisco. Le
due coste americane collegate da una rotta ideale,
come non c’è più stata.
Trovare
una connessione tra Eve
of Destruction e Do You Believe
In Magic? è come sfoderare la password per
entrare in quegli anni intensi e complicati condensati
nella voce di Barry McGuire e nelle paure che
evocava senza freni e nella gioiosa orchestrazione
dei Lovin’ Spoonful che inneggiavano alla magia
della musica. Le emozioni racchiuse in Jingle
Jangle Morning fluttuano tra questi due estremi
ed è una bella altalena.
Buffalo
Springfield - For What It's Worth (1967)
Barry
McGuire - Eve Of Destruction (1965)
Molti
ensemble hanno attraversato il campo del folk-rock
per poi allargare il proprio raggio d’azione:
The Holy Modal Rounders, Love, Beau Brummels,
Jefferson Airplane, Fugs, Dillards, Quicksilver
Messenger Service, Mamas & Papas, Big Brother
& The Holding Company e, più di tutti, i Grateful
Dead. Realtà diverse tra loro: a ben guardare
il riepilogo di Jingle Jangle Morning
mette in evidenza che nel terreno comune del cosiddetto
folk-rock sono poi germogliate forme sonore che
avrebbero imperversato a lungo negli anni a seguire.
Le estensioni verso la psichedelia o un certo
easy listening elettroacustico che avrà grande
successo qualche anno più avanti, partono da qui.
Oppure quella canzone d’autore che troverà spazi
significativi attingendo proprio dal folk-rock,
ma se si setaccia bene Jingle Jangle Morning
si possono individuare anche molte ramificazioni
che poi sono le fondamenta della riscoperta delle
radici della musica tradizionale americana dei
suoi innesti rock’n’roll, ancora validi, oggi
e domani. Un bel tuffo nel passato, ma anche un
universo parallelo tutto da riscoprire.
Jingle
Jangle Morning offre la possibilità di rileggere
e riascoltare quelle canzoni e si ritrova un gusto
per l’armonia nella musica come nella vita che
si trasmette nelle canzoni e nei suoni. I toni
acquerello e confessionali sono una componente
irrinunciabile, compresa anche un po’ di nostalgia.
Tra le assenze più influenti, va annoverata almeno
Joni Mitchell, richiamata da Tom Rush (Urge
For Going) e da Judy Collins (Both Sides
Now) compensata dalle numerose presenze femminili,
da Grace Slick a Linda Rondstadt fino a Nico.
L’estensione allargata è segno di quanto fosse
malleabile e indefinibile la natura in sé del
folk-rock, compreso un certo incupirsi e ammorbidirsi
con il passare del tempo, forse fisiologico, e
non esclusa una patina di formalismo. Ma, come
cantava Tim Hardin, qui si resta appesi a un sogno,
fin quando non arriva The Nitty Gritty Dirt Band
con Mr. Bojangles,
a tracciare una linea di demarcazione tra epoche
contigue e opposte.
Certo,
nei casi più intimisti e meditativi, ci si aspetta
sempre che Bluto Blutarski (sia benedetto) scenda
dalle scale, strappi la chitarra acustica al malcapitato
“tambourine man” di turno e gliela fracassi contro
il muro, ma questo è un altro discorso.