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Canzoni per un altro mondo
Le mille e più versioni di Dylan

- a cura di Marco Denti -

AA.VV.
I Shall Be Released
Covers of Bob Dylan 1963-1970

[Strawberry/ Cherry Red 2025]

Nel 1965 una pubblicità della Columbia recitava: “Nessuno canta Dylan come Dylan”, e c’è un fondo di verità in quello slogan, ma non ha impedito di pensare che fosse possibile rileggere le sue canzoni, prima e dopo l’anno fatidico di Newport e di Like A Rolling Stone, che è comunque al centro del periodo ripercorso da I Shall Be Released. Covers of Bob Dylan 1963-1970, nuova antologia dedicata alle rivisitazioni dylaniane. Un titolo che assume un significato ambivalente nell’occasione, visto che colleziona interpretazioni di un momento importante che, dal 1963 al 1970, ha un valore specifico per ragioni storiche legate all’evoluzione e alla rivoluzione di Dylan, ma verrebbe da dire che vale anche come una sorta di primo segmento ideale per poi inseguire un’identità elusiva, a dir poco.

La gamma selezionata da I Shall Be Released è piuttosto eccentrica, segno che le canzoni di Dylan sono state rilette con sensibilità differenti, a tratti persino contrastanti, e da personalità e spiriti diversi, ma in qualche modo affini. Se anche uno come Johnny Cash ha sentito il bisogno di rivedere Wanted Man così come Janis Joplin di cantare Dear Landlord, significa che le interpretazioni delle canzoni di Dylan sono una moltitudine che va ben oltre l’innegabile densità del suo repertorio. Si tratta proprio di un vocabolario, una fonte inesauribile, una processione molecolare a cui attingere senza limite. Più di tutto, le canzoni di Dylan offrono una direzione, senza varcarla, lasciando spazi immensi per trovarsi e ritrovarsi e vale per Al Stewart come per i Fairport Convention o chiunque coinvolto in I Shall Be Released.

È un flusso che Dylan ha alimentato a dismisura, come spiegava Elijah Wald: “Le canzoni mutavano continuamente e, anche quando è possibile individuare una fonte, spesso gli intermediari sono numerosi: qualcuno imparava un brano da un vecchio 78 giri e lo suonava a una festa, qualcun altro lo sentiva e lo ripeteva a memoria, cambiando qualche parola e aggiungendo un paio di frasi da un’altra canzone, un altro ancora lo trasponeva dal banjo alla chitarra”. Nel corso dei tempi che cambiavano Dylan è stato anche un parafulmine e le riletture delle sue canzoni andrebbero lette come una parziale forma di risarcimento e la genesi di un canone più unico che raro.

Johnny Cash - Wanted Man (1969) Leon Russell - It's A Hard Rain Gonna Fall (1970)

Si tratta di una sorta di terreno comune, di esperanto, e non solo perché hanno tradotto una visione, se non proprio una missione, ovvero un messaggio, ma anche perché sono “un invito che prometteva familiarità” come scrive Daniel Mark Epstein. Hanno solleticato i trattamenti più disparati, eppure riescono comunque a mantenere un’identità (forse solo Dylan riesce a renderle irriconoscibili, ma questo è un altro discorso). Dentro I Shall Be Released si riscoprono Girl From The North Country rifatta in versione bluegrass da Flatt and Scruggs o Masters of War cantata da Cher con una batteria marziale e un mood psichedelico e ogni volta è l’occasione per sperimentare le possibilità estremità di un sound, come la flebile Lay, Lady, Lay secondo Sandie Shaw o l’energica riproposizione di Hard Rain nelle mani di Leon Russell, purtroppo ancora attualissima così come Al Kooper mette mano a The Man In Me poi rivista anche dai Clash. Le canzoni non si possono controllare, non si possono tradurre, ma come diceva Leonard Cohen siamo comunque alla ricerca di “qualcuno la cui voce sembra quella di Bob Dylan”. In I Shall Be Released c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma per trovare le giuste coincidenze nei salti temporali bisogna passare per la versione bucolica di Like a Rolling Stone dei Canticle da Farnborough con il violino di Pete Lambert che anticipa i contrappunti di Scarlet Rivera. Siamo soltanto nel 1970, ma la rilettura folkie riporta inevitabilmente al 1965, quando invece quei versi arrivarono come un’esplosione apocalittica.

Se c’è ancora da aggiungere qualcosa rispetto alla svolta elettrica, è quello che scriveva Mike Marqusee in Wicked Messenger (ilSaggiatore): “Il volume era una parte integrante della ricerca dylaniana di un suono più ampio, non solo in un senso: lui voleva che la sua arte rappresentasse un’esperienza intensa per tutte le persone coinvolte, che fosse una scarica di energia febbrile, un insieme musicale che fosse ben più di un testo associato a una melodia”. È una riflessione che restituisce un senso alla scelta di Dylan, oltre alle mille illazioni, e la ricompone in un quadro più articolato e complesso della contrapposizione acustico versus elettrico o folk contro rock’n’roll. Il passaggio alla Stratocaster conteneva molto di più, così come conferma la percentuale di rendition che vanno in quella direzione contenute in I Shall Be Released.

Faces - Wicked Messenger (1970) Fairport Convention - Percy's Song (1969)

Quando le canzoni godono del trattamento elettrico, è naturale ricordare i Byrds, ovviamente, che in quel senso sono stati i precursori e hanno fatto scuola, seguiti da tutti, e poi The Band, prima ed evidente lacuna di I Shall Be Released. È da allora che il rock’n’roll è inseparabile dal songwriting di Dylan e vale per i Faces con Wicked Messenger poi rifatta da Patti Smith e per Johnny Winter, con cui estrapolare il blues diventa un imperativo, quasi un passaggio obbligato. Vale anche per Alan Brown e la sua All Along The Watchtower, ma va da sé che la versione definitiva resta quella di Jimi Hendrix e se dobbiamo notare un’altra assenza di riguardo nella cornucopia di I Shall Be Released è proprio la sua, che tra gli interpreti di Dylan è stato il più coraggioso.

A parte il copioso contenuto di I Shall Be Released che persegue una sua logica, gli omaggi a Dylan sono infiniti e continuano senza sosta e spesso e volentieri non si limitato alle canzoni, ma riprendono anche le copertine degli album. Le donne, in particolare, sembrano nutrire un fascino speciale per il songwriting dylaniano. In ordine sparso Rory Block, Lucinda Williams, Joan Osborne, Chrissie Hynde e Cat Power hanno saputo riconoscere e sviluppare i punti di vista femminili, che non sono insoliti nelle canzoni di Bob Dylan, dove ci sono variabili e costanti. Contenendo moltitudini di influenze letterarie e musicali (entrambe le cose), vecchie melodie poi riproposte in modo diverso, le costanti sono riconoscibili come tasselli di un unico, elaborato e visionario discorso. Le variabili emergono ogni volta dalle interpretazioni che utilizzano quel linguaggio come una forma di comunicazione condivisa, a cui va aggiunta la voce che, con tutte le sue fibrillazioni, resta una componente indivisibile.

Un bell’esempio di quello che può generare la forza delle parole, della loro espressione e dello stesso Dylan è quello che ha fatto Daniel Romano, con un episodio singolare, ma anche significativo. Ha riproposto per intero Infidels, però non ricalcando la versione ufficiale prodotta con Mark Knopfler, ma quella elaborata con i Plugz, un trio scatenato di Los Angeles, con cui Dylan si esibì nel 1984 in una memorabile performance al Letterman Show (e questo è puro e semplice rock’n’roll). Daniel Romano rilegge Infidels con quell’attitudine, e oltre a essere una salutare scossa di energia, è la dimostrazione concreta che nella storia di Dylan ci sono ancora degli anfratti da esplorare ed è un gran bell’omaggio a tutto quel sottobosco californiano che dai Plugz porta ai Cruzados e a Tito & Tarantula, gente che vive dal tramonto all’alba, e si sente. Daniel Romano strapazza le canzoni con le chitarre a tutto volume proprio come avevano fatto i Plugz e come farà anche Lou Reed con Foot of Pride, un’altra outtake di Infidels, e quindi rilanciando l’idea di attingere non solo alla sua produzione ufficiale, ma anche a quella sotterranea e, nel caso specifico, persino a un’idea bruciata a tutta velocità, nello spazio di una notte.

Vale ogni mezzo e l’attrazione magnetica dipende dal fatto che Dylan scrive come se fosse libero da calendari e almanacchi e avesse spazio e coordinate che mutano ogni volta, invisibili ai più, spesso inafferrabili. Il fatto le canzoni non possano essere identificate con sicurezza con un periodo storico, come se venissero da un luogo senza tempo, e fossero destinate a essere universali, le rende adatte a ogni futuro.

Con Dylan l’origine è sempre indefinita e la direzione è biunivoca (come succederà in particolare con i Basement Tapes o con Good As I Been To You o World Gone Wrong o per tutta la lunga esplorazione delle “ombre notturne”) ma si tratta comunque di canzoni senza tempo, mentre gran parte della musica ha una banale data di scadenza. Antiche ballate e nuove melodie reinventate grazie al suo fraseggio, si prestano a rinnovarsi e a trovare un’altra identità e a guardare la massa di omaggi e di tributi, di corsi e ricorsi, viene da pensare che le canzoni di Dylan abbiano offerto un modo per riconoscersi, per condividere e tramandare la visione di un altro mondo, se possibile.

A risentirle, oggi, le parole di Blowin’ In The Wind, in qualunque forma, sembrano l’effetto di una rifrazione sonora, di un messaggio che arriva da un altro universo, dove la curva dell’evoluzione degli esseri umani aveva ancora una possibilità, e la musica non era un gadget tutto sommato relativo. E se le canzoni di Dylan sono state interpretate da tutti (e da tutte), e chiunque ne è stato ispirato, Sam Cooke per primo, è perché è come scriveva Eric Andersen, uno che è sempre stato lì: “Lui ha visto l’altro lato: è stato nelle tenebre, è ritornato e l’ha raccontato”. Non un viaggio indolore, si capisce. Alla fine, gli interpreti e le cover hanno contribuito a diffondere il verbo e hanno avuto un ruolo determinante nel creare Dylan che resta un caos, un enigma, un mistero. Non facile, si sa.

E allora? Lo sappiamo, e tanto vale quello che diceva il lungimirante Paul Nelson: “Preferite mangiare marshmallow e zucchero filato o carne e patate? Preferite pensare che tutto sia rose e fiori o accorgervi anche delle spine? Preferite un tizio simpatico che ha sottomesso e asservito la propria arte alla visione di un mondo che non è mai esistito e che non esisterà mai, o un poeta rabbioso e passionale che chiede alla sua arte di essere tutto? È una sensazione dolorosa per tutti, me compreso. Io scelgo Dylan. Io scelgo l’arte”. Anche noi.


 

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