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cura di Fabio Cerbone E' l'operazione che trascina gli Eagles di quel 1973 nella concezione di Desperado, secondo album della loro vicenda artistica e vertice della più immacolata fase country rock della band californiana (ma nessuno di loro era californiano...). Se l'esordio era stata una sintesi per certi aspetti mirabile e scaltra, impeccabile nella forma, delle mille istanze tradizionaliste nate in seno alla scena West Coast di quegli anni, un versione depurata eppure finissima degli insegnamenti impartiti da gente come Byrds e Flying Burrito Brothers, Desperado ne rappresenta la faccia più teatrale e ambiziosa. Affascinati dalle leggende dei fuorilegge, dalla banda dei fratelli James ai meno noti fratelli Dalton (che ispireranno il brano portante della raccolta, Doolin-Dalton), i quattro Eagles dell'epoca - il gruppo è ancora ristretto ai membri originari Don Henley, Glenn Frey, Randy Mesner e Bernie Leadon - si fanno ritrarre sulla copertina agghindati da autentici banditi, con tanto di fucili, cinturoni e cartuccere. Un costruzione architettata con uno spiccato senso dell'immagine e del marketing, che alla formazione californiana non mancherà mai: è l'apoteosi in un certo senso di tutto quello sguardo volto verso il mito della Vecchia America, roba che anche misconosciute band come i Charlatans di George Hunter, eroi di culto della psichedelia di Frisco proponevano quasi dieci anni prima, senza lo stesso appeal però. Sul retro la band, con l'aggiunta dell'amico e collaboratore JD Souther (sua una della firme nella citata Doolin-Dalton), è immortalata ai piedi dei loro giustizieri (tra questi ultimi i road managers del gruppo e il produttore Glyn Johns), ciascun membro assasinato e legato per le mani: una sorta di gang catturata e fatta fuori dai "buoni" cacciatori di taglie. L'atmosfera
da film western e il vento da deserto del South West americano sono riassunti
nella stessa colonna sonora: Desperado è un disco che giustifica
le intuizioni del produttore Glyn Johns, il quale trascina gli Eagles presso gli
Island Studios di Londra (ironia della sorte: un disco sul West inciso in Inghilterra...),
scorgendo l'alchimia giusta fra una chiara tensione rock'n'roll e legami indissolubili
con il mondo country folk. Da sempre convinto che la band non sia in grado di
competere sul piano dell'elettricità con altre formazioni dell'epoca, Johns accentua
gli intrecci vocali e l'impasto elettro-acustico fra le chitarre di Frey e il
bravissimo Bernie Leadon, che con banjo e acustiche esprime l'animo rurale degli
Eagles. Se canzoni come la brillante marcetta bluegrass di Twenty
One o la serenata country di Saturday Night
sono la quintessenza del sound esploso nell'undergorund californiano con Dillard
& Clark, se Bitter Creek o Certain Kind of Fool (con la limpida
e poco sfruttata vocalità di Meisner) sono dirette filiazioni del percorso che
porta dai Buffalo Springfield a CSN&Y, le pulsioni rock di Out of Control
e Outlaw Man (uno scuro e potente brano scritto
dal folksinger David Blue) indicano invece una band in pieno subbuglio e desiderosa
di mettersi in gioco. Il singolo prescelto è Tenquila
Sunrise, perfetta brezza che soffia dal confine messicano, a simboleggiare
le capacità melodiche della coppia Henley-Frey. Il brano che assurge però a leggenda
è la stessa title track, per le evidenti ambizioni produttive: sontuosa ballata
interpretata da Don Henley e levigata dalla partecipazione della London Symphony
Orchestra, troverà maggior successo nelle corde dell'amica Linda Ronstadt (il
nucleo degli Eagles nacque proprio come backing band dell'artista). Desperado
tornerà poi nel finale, chiudendo il ciclo di canzoni e ribadendo le velleità
di concept, in una versione accoppiata alla melodia di Doolin-Dalton.
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