a cura di Fabio Cerbone

per Glenn Frey (6 novembre 1948 – 18 gennaio 2016)


Nella primavera del 1973 il rock'n'roll della Costa Ovest americana ha già iniziato il suo percorso a ritroso nella memoria storica, un riflusso che pone il suo sguardo sul passato, per trovare le ragioni della sua stessa sopravvivenza. È una generazione in ritirata e che si lecca le ferite, quella che dopo la sbornia dell'Estate dell'Amore di Frisco si interroga sul senso del viaggio che ha intrapreso, ma soprattutto sugli errori e le ingenutià che ne hanno decretato la sconfitta. Non è così tutto chiaro al tempo e i piani si sovrappongono, ma è innegabile che, a partire dagli stessi campioni della frontiera psichedelica e del folk rock, dai Grateful Dead ai Byrds, un ritorno verso le "radici" è letto come una sorta di ritiro spirituale, di ricerca di significato, non solo musicale.

È allora che si innesta la rivoluzione silenzionsa del country rock, ufficialmente sancito a livello critico con Sweetheart of the Rodeo, il disco dell'innesto di Gram Parsons nei Byrds, e in verità esploso prima e dopo quell'album con una miriade di proposte simili (Dillard & Clark, Nitty Gritty Dirt Band, New Riders of the Purple Sage, Poco) che scovano nella tradizione, nel richiamo ancestrale della musica dei padri, persino nel "conservatorismo" di Nashville, le ragioni e l'anima di una nazione ferita, in costante conflitto generazionale. C'è anche un miscuglio di ecologismo spicciolo, di serenità bucolica che si intrecciano con il desiderio delle nuove comuni hippie, le stesse che accolgono in quegli anni l'entourage di musicisti come i citati Dead. "Prosegui vero un'esistenza semplice, pastorale", scriveva il poeta e ambientalista Gary Snyder, tra le figure cardine del mondo beat di San Francisco: guardare al passato può esprimere un'esigenza di armonia, anche di tregua, in mezzo al sangue che è scorso sulle strade. Il passato può diventare tuttavia anche una moda espressiva, un canovaccio per sviluppare un concept sull'epopea del West, scavando dentro un immaginario che appartiene di diritto al racconto americano.

E' l'operazione che trascina gli Eagles di quel 1973 nella concezione di Desperado, secondo album della loro vicenda artistica e vertice della più immacolata fase country rock della band californiana (ma nessuno di loro era californiano...). Se l'esordio era stata una sintesi per certi aspetti mirabile e scaltra, impeccabile nella forma, delle mille istanze tradizionaliste nate in seno alla scena West Coast di quegli anni, un versione depurata eppure finissima degli insegnamenti impartiti da gente come Byrds e Flying Burrito Brothers, Desperado ne rappresenta la faccia più teatrale e ambiziosa. Affascinati dalle leggende dei fuorilegge, dalla banda dei fratelli James ai meno noti fratelli Dalton (che ispireranno il brano portante della raccolta, Doolin-Dalton), i quattro Eagles dell'epoca - il gruppo è ancora ristretto ai membri originari Don Henley, Glenn Frey, Randy Mesner e Bernie Leadon - si fanno ritrarre sulla copertina agghindati da autentici banditi, con tanto di fucili, cinturoni e cartuccere. Un costruzione architettata con uno spiccato senso dell'immagine e del marketing, che alla formazione californiana non mancherà mai: è l'apoteosi in un certo senso di tutto quello sguardo volto verso il mito della Vecchia America, roba che anche misconosciute band come i Charlatans di George Hunter, eroi di culto della psichedelia di Frisco proponevano quasi dieci anni prima, senza lo stesso appeal però. Sul retro la band, con l'aggiunta dell'amico e collaboratore JD Souther (sua una della firme nella citata Doolin-Dalton), è immortalata ai piedi dei loro giustizieri (tra questi ultimi i road managers del gruppo e il produttore Glyn Johns), ciascun membro assasinato e legato per le mani: una sorta di gang catturata e fatta fuori dai "buoni" cacciatori di taglie.

L'atmosfera da film western e il vento da deserto del South West americano sono riassunti nella stessa colonna sonora: Desperado è un disco che giustifica le intuizioni del produttore Glyn Johns, il quale trascina gli Eagles presso gli Island Studios di Londra (ironia della sorte: un disco sul West inciso in Inghilterra...), scorgendo l'alchimia giusta fra una chiara tensione rock'n'roll e legami indissolubili con il mondo country folk. Da sempre convinto che la band non sia in grado di competere sul piano dell'elettricità con altre formazioni dell'epoca, Johns accentua gli intrecci vocali e l'impasto elettro-acustico fra le chitarre di Frey e il bravissimo Bernie Leadon, che con banjo e acustiche esprime l'animo rurale degli Eagles. Se canzoni come la brillante marcetta bluegrass di Twenty One o la serenata country di Saturday Night sono la quintessenza del sound esploso nell'undergorund californiano con Dillard & Clark, se Bitter Creek o Certain Kind of Fool (con la limpida e poco sfruttata vocalità di Meisner) sono dirette filiazioni del percorso che porta dai Buffalo Springfield a CSN&Y, le pulsioni rock di Out of Control e Outlaw Man (uno scuro e potente brano scritto dal folksinger David Blue) indicano invece una band in pieno subbuglio e desiderosa di mettersi in gioco. Il singolo prescelto è Tenquila Sunrise, perfetta brezza che soffia dal confine messicano, a simboleggiare le capacità melodiche della coppia Henley-Frey. Il brano che assurge però a leggenda è la stessa title track, per le evidenti ambizioni produttive: sontuosa ballata interpretata da Don Henley e levigata dalla partecipazione della London Symphony Orchestra, troverà maggior successo nelle corde dell'amica Linda Ronstadt (il nucleo degli Eagles nacque proprio come backing band dell'artista). Desperado tornerà poi nel finale, chiudendo il ciclo di canzoni e ribadendo le velleità di concept, in una versione accoppiata alla melodia di Doolin-Dalton.

L'album resterà il meno venduto della storia della band, con Tequila Sunrise ferma al 64° posto della classifica dei singoli Billboard, che non trascinerà nell'immediato gli Eagles verso quel successo che si aspettavano. Paradossi della storia del rock, sempre in agguato, mentre lo zucchero romantico di Best Of My Love nel successivo On the Border sarà il segnale della definitiva eplosione nel mainstream. Forse il più interessante e curioso della loro produzione, evidentemente anche il più roots, Desperado è lo scatto con cui vogliamo ricordare personalmente la storia di Glenn Frey, appena scomparso, e soci, nell'istante della loro maggiore innocenza (se mai ne hanno posseduta una).


    



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