L'occasione
era troppo ghiotta: recuperati da un oblio scandaloso grazie all'etichetta
specializzata Wounded Bird, ritornano
sul proscenio i primi tre dischi dei bostoniani Del Fuegos
- quelli del periodo storico con la Slash - e noi non potevano che
rituffarci nei ricordi di una fragorosa meteora del rock'n'rol più
operaio e stradaiolo. A loro è dedicato questo Folklore, nella
speranza che i cassetti della RCA si aprano di nuovo per scoprire
il loro mirabile canto del cigno, Smoking in the Fields...anche per
questo lo incoroniamo il loro personale capolavoro
a cura di Yuri Susanna
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Il ritratto
Boston nella prima metà degli anni '80 cercava di resistere come poteva:
la scena hardcore andava compattandosi intorno all'influsso dello
straight edge di Washington, mentre la ricerca post punk poteva
vantare la fondamentale esperienza dei Mission of Burma e nell'underground
c'era chi guardava ai sixties, come i Lyres e i sottovalutati Neats.
E poi c'erano i Del Fuegos, i migliori cantori delle notti
in città. In pista dal 1980, i due fratelli Zanes (Dan, ugola
d'asfalto e ghiaia, le cui corde vocali paiono bagnate nello stesso
whisky che si consuma in casa Richards, e Warren, chitarra ritmica
di pochissime buone maniere), insieme al bassista Tom Lloyd
e al batterista Steve Morrell, si fanno venire i calli sui
palchi dell'East Coast prima che la Slash, etichetta benemerita con
sede sull'altra costa, si accorga di loro - pare su segnalazione di
Dave Alvin - e li affidi alle mani di un giovane produttore dal futuro
pesante, Mitchell Froom.
Il sodalizio partorirà tre album che sbalzano nella pietra (nel vinile,
cioè) una piccola grande leggenda del rock di serie B (solo in termini
di budget, non certo di qualità), prima che il mancato successo, gli
scazzi tra i fratelli o più semplicemente il destino, che vuole gli
eroi e le garage band invise agli dei, smembri il quartetto. Rimasto
nelle mani di Dan e del bassista Tom Loyd, vale a dire i due membri
originari, il gruppo troverà comunque il modo di chiudere la sua avventura
con uno dei capolavori meno celebrati (ma niente paura: siamo qui
per rimediare) del decennio. Fin qui la storia. Ma come spiegare a
chi non c'era, a parole, cosa hanno rappresentato quelle canzoni di
tre/quattro minuti, come trasformare la storia in epos? Proviamoci.
I Del Fuegos sono stati, in anni di fede sotterranea e clandestina
per un certo tipo di musica, un santino da appendersi al collo, un'icona
della devozione verso un rock'n'roll da consumare sull'asfalto bagnato
da luci al neon, tra il garage sotto casa e il bar all'angolo, semplice
e appagato della sua dimensione romantica e ingenua, e propulso da
una spinta ritmica che prende alle viscere e fa muovere le gambe.
I sogni e la carne. Il desiderio e il sudore. In dimensione umana,
da pub.
Mentre chi cantava di essere nato per correre gonfiava i muscoli negli
stadi, i Del Fuegos riportavano quell'ideale sulla terra, per
viverlo in prima persona ogni venerdì sera nel locale più rumoroso
della città. Questo per l'etica. Per quanto riguarda l'estetica, il
gruppo incendiava (nomen omen) le polveri di un rock da strada dai
nobili padri, da Springsteen ai Creedence, da Tom Petty ai Mink Deville.
E gli Stones, naturalmente: quelli della prima british invasion, degli
album da 30 minuti o anche meno, dei riff micidiali e del rhyhm &
blues spogliato di tutti i fronzoli. Senza dimenticare la scena di
Detroit, la rilettura bianca e sporca del soul della motorcity operata
nel decennio precedente da brutti ceffi come Bob Seger, e che a Boston
aveva conosciuto le gesta della J. Geils Band. Gli show dei Fuegos
erano un esplosione di furore e ritmo che faceva tremare tutti i vetri
dell'isolato; se non ci credete, fate un giro per la rete: troverete
blog di attempati padri di famiglia che ricordano ancora oggi con
ardore e commozione i glory days della band.
Arriveranno anche in Italia, per promuovere Smoking in the Fields,
nel 1989, e forse qualcuno che sta leggendo queste righe se li ricorda.
Qui da noi il gruppo dei fratelli Zanes trovò subito terreno fertile
per il proprio culto: più dei Replacements, band per molti versi affine,
che, forse per le loro origini punk, non furono subito capiti e apprezzati
dal pubblico italiano, i Del Fuegos vennero presto "adottati" dai
tradizionalisti più illuminati come profeti di un modo di intendere
il rock che sembrava sulla via dell'estinzione, l'avamposto difensivo
di una musica che nutre i sogni facendo prima muovere il culo. "Una
musica che si è sentita mille volte e che si accetta sempre con la
stessa indulgenza soddisfatta con cui si mesce un bicchiere del proprio
vino preferito: si conosce il gusto, ma ogni volta sembra più buono.
E poi fa sempre lo stesso effetto." (1) Di loro restano quattro
album che sono un monumento di rock diretto e semplice, ma allo stesso
tempo ricco di sfumature e risonanze. Un poker mancato - la terza
carta del mazzo, Stand Up, non è esattamente un asso, ma neanche un
"due" come era sembrato ai tempi - che ora, grazie al lavoro della
Wounded Bird, è di nuovo disponibile quasi interamente (manca ancora
all'appello Smoking in the Fields) in Cd.
(1)
Cosi scriveva Mauro Zambellini, maestro di sensibilità e immaginario per un intera
generazione di scrittori rock, sul numero di marzo 1986 di un Mucchio a quei tempi
ancora "selvaggio" (di nome e di fatto)
:: Il capolavoro
Smoking in the Fields
[RCA 1989]
1.
Move With Me Sister //2. Down in Allen's Mills //3. I'm Inside You //4. Headlights
//5. Breakaway //6. Dreams of You //7. The Offer //8. Part of This Earth //9.
Stand by You //10. Lost Weekend //11. No No Never //12. Friends Again
Rimasti
in due, Zanes e Lloyd chiudono l'avventura dei Del Fuegos reclutando a
bordo il chitarrista Adam Roth e il batterista Joe Donnelly e affidando il timone
al produttore Dave Thoener, che riprende il discorso dove il gruppo l'aveva interrotto
con il fallimentare Stand Up. Vale a dire da una scrittura rock classica, fatta
di riff di chitarra quadrati ma mai banali, aperture armoniche da grandi spazi
e un pulsare ritmico da pub-rock ad alto tasso di negritudine. Smoking è il capolavoro
che gli album precedenti lasciavano intuire, undici canzoni in cui il potenziale
di songwriter di Zanes si realizza pienamente, con un suono finalmente ricco ma
non sovraccarico, in cui i fiati, gli archi, le coloriture delle tastiere non
rallentano, anzi esaltano l'andamento dei pezzi. Il disco è tutto quello che il
rock (almeno quello "ufficiale") negli anni '80 non è stato. Non che sia una colpa,
è chiaro, nessun moralismo: semplicemente la storia aveva preso un'altra strada.
I Del Fuegos, senza nostalgia ma con una grande coscienza delle radici che li
sostengono, nel loro canto del cigno riportano la musica alla sua dimensione corporea,
carnale, ad un'urgenza espressiva che pochissimi dischi di quegli anni sono in
grado di raggiungere, soprattutto all'interno di una dimensione così "classica".
Come degli esiliati sulla strada maestra: gli Stones del loro capolavoro sono
il referente immediato di questa festa di sudore e passione, cui sono invitati
anche due reduci della più grande pub-band di Boston prima dei Fuegos, Seth
Justman e Magic Dick della J. Geils Band (in evidenza nelle bolgie
rock'n'roll di Headlights e Lost
Weekend). I fiati, che nel disco precedente foderavano la scarsa stoffa
delle canzoni, qua sono la miccia che fa esplodere la danza di strada di Move
With Me Sister e accompagnano la corsa di Dreams
of You, The Offer e No
No Never, mentre I'm Inside You è
la ballata che ogni band di adolescenti che dopo la scuola attacca gli ampli alla
presa del garage del babbo sogna di scrivere nella vita. Prima del commiato ai
vecchi compagni di strada di Friends Again,
dedicata a Warren, c'è anche lo spazio per sentire la voce di Rick Danko
fare capolino in Stand by You. Un disco che
ogni volta restituisce la stessa carica della prima volta che si è fatta scendere
la puntina sui suoi solchi e fa scoprire sempre qualche particolare nuovo (l'avevate
notata voi la tromba mariachi nel finale di Down in Allen's
Mill?). Tutte le qualità di un capolavoro, insomma.
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Dischi essenziali
The Longest Day [Slash 1984]
Un
album che inizia con Nervous and Shakey e
Backseat Nothing non si capisce come non possa
essere considerato un classico della musica americana. Eppure, i Del Fuegos
non sfondarono né con questo primo tentativo, già maturo e compiuto, né con
i successivi. Il loro romanticismo in giubbotto di cuoio era fuori posto non solo
rispetto all'edonismo dei tempi, ma anche rispetto al tardo ribellismo punk e
all'angst di quella generazione X che stava per uscire allo scoperto. La storia
della loro breve esistenza si consuma tutta fuori tempo, insomma. Importante in
questo esordio il lavoro di Mitchell Froom, di fatto il quinto membro della
band, che trafigge i pezzi con stilettate di hammond e, soprattutto, mantiene
il suono grezzo e immediato senza farlo suonare sporco o impastato, giocando in
studio con echi e riverberi per dare quel tocco particolare (poco anni '80, in
fondo) agli anthem dei ragazzi. Come se le canzoni fossero registrate in un garage,
e non al Sound Factory di Los Angeles. La voce di Dan Zanes è già perfetta,
arrochita dalle sigarette e dalle serate passate a urlare sui palchi di mille
pub, cercando di sovrastare le voci degli avventori e il casino prodotto dalla
sezione ritmica. Oltre al dittico iniziale, si segnalano la title-track, Mary
Don't Change, la pettyana Call My Name
e Missing You, una delle rare incursioni in
territori country del gruppo. Rolling Stone li vota miglior nuova band del 1984
(che porti sfiga?) e Have You Forgotten qualche
anno dopo finirà nella colonna sonora del cult-horror demenziale "I Was a Teenage
Zombie" (in Italia "I ragazzi del cimitero"). Prima delle registrazioni il batterista
Steve Morrell è sostituito da Woody Giessmann.
Boston Mass. [Slash, 1985]
Chi
legge queste pagine e ha più di trent'anni quest'album lo possiede e l'ha quasi
sicuramente consumato. Probabilmente in vinile. Magari "bucato". Perché i sogni
di rock'n'roll in quegli anni, prima che Ligabue li rendesse (nazional)popolari,
finivano presto in saldo. Ma non per questo valevamo meno, anzi. Questo è il disco
che ci ha fatto correre tutti, sul battito irresistibile di Don't
Run Wild e sul filo dell'elettricità frenetica di It's
Alright, brano capace ancora oggi di buttare giù i muri di qualsiasi
locale. Il canovaccio è lo stesso del disco precedente, così come il lavoro di
Froom sui suoni, ma il gruppo in pochi mesi ha affinato soprattutto l'arte della
composizione: non c'è un pezzo rinunciabile in Boston, Mass. In
particolare, Dan Zanes è cresciuto come autore di ballate: come resistere al cuore
gonfio di Fade to Blue o al romanticismo da
vicolo male illuminato di Coupe de Ville?
E poi, perché farlo? Menzione speciale per Night on the
Town, tre minuti di poesia notturna avvolta dalla calda coperta di
un hammond. Stavolta il mondo che conta sembra davvero accorgersi di loro: Springsteen
in una pausa del tour di Born in the USA li raggiunge sul palco di un club in
North Carolina ed esegue con loro Hang on Sloopy e Stand by Me.
Alla Slash circolano un po' di soldi e il gruppo gira anche un paio di video:
quello di I Still Want You (altra ballatona
che stringe lo stomaco) - immagini sgranate e virate al blu dei neon, - manda
il singolo in classifica (87mo posto della Billboard Hot 100) e riceve un buon
airplay anche in Europa, in particolare in Spagna (!). Infine, la birra Miller
li sceglie, riprendendoli live, per un commercial. Ma i fratelli Zanes non sono
Nick Kamen, e non sarà uno spot a cambiar loro la vita.
Stand Up [Slash,
1987]
Il
gruppo cerca di prendere il sogno per la coda, e sfrutta l'hype che cresce intorno
al nome della band: al numero dei fans illustri si aggiungono anche Fogerty e
Petty, che li chiama ad aprire il tour del 1986 insieme ai Replacements (riuscite
a immaginare che razza di show potessero essere?) e partecipa alle sessions del
nuovo album. Froom questa volta cerca di arricchire di sfumature il suono, di
aggiungere colori a una tavolozza che in realtà aveva già tutte le tinte necessarie
per i quadri, naif e fauve, che i Fuegos dipingevano tanto bene. Il rischio è
quello di snaturare il suono della band, di trasformarla da un ensemble di impatto
live a qualcosa d'altro, né carne né pesce. In realtà l'idea di esplorare il lato
soul della scrittura di Zanes non è di per sé sbagliata, come dimostrerà nei fatti
Smoking in the Fields. Manca però in Stand Up il senso della misura:
il disco è infarcito di backing vocals, fiati e session man (James Burton, Alex
Acuna e Merry Clayton - la voce femminile di Gimme Shelter - i nomi dal cachet
più alto) che non rendono sempre un buon servizio alle canzoni. Canzoni che sono
in fondo il vero punto debole dell'album: dopo anni di concerti in giro per l'America
Dan arriva all'appuntamento con il terzo fondamentale disco col fiato un po' corto,
ed il suo songwriting risulta appannato. La produzione sovrabbondante non fa che
aumentare questa sensazione, dando l'idea che sia necessario riempire i vuoti
di ispirazione con paillettes e lustrini. Sia chiaro: se uscisse adesso, un album
così, forse lo troveremmo disco del mese di Rootshighway, ma allora, dopo le due
gemme che l'avevano preceduto, la delusione fu davvero forte. Tanto che molti
non si accorsero del valore comunque innegabile di brani come la funkeggiante
Wear it Like a Cape,
A Town Called Love o la stoniana Long Slide.
E New Old World non è poi così male, anche
se sembra un brano di Robert Plamer. Il duetto con Petty in
I Can't Take This Place passa invece inosservato, allora come oggi.
Al termine del tour Warren e il batterista Woody Giessmann molleranno il colpo.
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Il resto
Dan Zanes Cool Down Time
[Private, 1995]
Dan
prova a rimettersi in strada, con l'aiuto di un raffinato torturatore di tamburi
come Jerry Marotta e del solito Mitchell Froom, ormai diventato un nome di grido.
L'album del ritorno è profondamente segnato dalle sonorità del produttore: se
avete presente i dischi di metà anni '90 di Los Lobos, Richard Thompson o della
consorte Suzanne Vega, non dovrete fare uno sforzo troppo grande per immaginarvi
cosa vi aspetta. La sorpresa è che le canzoni di Dan funzionano anche in questa
veste di raffinato minimalismo, quasi jazzy in alcuni momenti (No
Sky), con arrangiamenti segnati più dal battito dei bassi rotondi e
pieni e dalle incursioni dell'organo che dal volume delle chitarre (Zanes scopre
la leva del tremolo della sua Fender e ne ricava suoni carichi di suggestione…).
Tested è un bel rock da corsa in auto, mentre
All Time Girls scuote il fantasma di Buddy
Holly, Rough Spot aggiorna il verbo dei Creedence
alle notti dei '90 e ballate come Darkness Before Dawn
e Carelessly hanno il sapore agrodolce
dei sogni lasciati maturare troppo. Un disco dalla forte impronta notturna, che
rivela sfumature più intime della voce del suo autore e una maturazione nei temi
delle liriche e mantiene ancora oggi il suo fascino, ma che non vende nulla e
il cui insuccesso convince Dan, diventato padre proprio quell'anno, a prendere
un'altra strada. Una strada le cui tappe sono 8 album di "family music", canzoni
per bambini che ricostruiscono la carriera del musicista, gli procurano uno spazio
su Disney Channel e tour festanti in giro per i teatri d'America. "Non c'è
nulla che rimpiango del mondo del pop. Credo che ciò che ho sempre desiderato
sia essere amato dalla gente per cui faccio musica, ed in questo senso ottengo
molto più appezzamento ora che mai. (…) Senza contare che non torno a casa puzzando
di fumo e nessuno più rovescia birra sulle mie scarpe."
Warren Zanes Memory Girls
[Dualtone, 2003]
"Brother"
Warren non è rimasto certo inoperoso dopo avere abbandonato il gruppo al suo destino:
una laurea con dottorato in Arti Visive, e una cattedra alla Manhattan's School
of Visual Arts farebbero pensare che il più giovane dei fratelli Zanes sia stato
il primo a mettere la testa a posto. Ma la nostalgia è canaglia e la voglia di
ritornare nel giro della musica lo ha spinto prima a registrare alcuni brani con
la complicità dell'ex Morphine Billy Conway, poi a lavorare in studio con i Dust
Brothers (Beck e Beastie Boys, tra gli altri) per un album che per problemi legali
vedrà la luce un paio d'anni dopo la sua registrazione. I giorni degli strumenti
caricati in fretta sui furgoni e dei pub lungo la strada sono davvero lontani:
Warren è ora un maturo gentleman un po' dandy, con ancora la faccia da
adolescente ma gusti musicali ormai adulti. L'album ha un feeling pop un po' blasé,
un cocktail con appena qualche lontano sapore degli ingredienti roots e garage
dei tempi che furono. Insomma negli anni '90 Warren ha avuto modo di sostituire
i poster di Keith Richards e Joe Perry sopra il letto con quelli di Phil Spector
e Burt Bacharach. L'album ha comunque i suoi momenti, e conta anche qualche apparizione
di vaglia (Patty Griffin, Emmylou Harris). Non dispiace la melodia di First
on the Moon, ruffiana quanto basta, e la cartolina dalla Senna di
Did You Recognize My Love, mentre If You Could
Stay aggiorna Getting Better dei Beatles e Have
You Once Recalled the Days riporta alla mente il flirt con il soul
orchestrale di Paul Weller ai tempi degli Style Council. Ma la voce di Warren
manca di incisività e personalità, e tutto scorre senza lasciare troppo il segno.
Il ragazzo comunque ci prende gusto, e nel 2006 fa uscire un secondo capitolo.
Se vi capita tra le mani nel reparto dei cd usati di qualche negozio fateci un
pensierino, ma non state a perderci il sonno.
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Riepilogo (discografia)
The Del Fuegos The Longest Day
(Slash, 1984/ Wounded Bird, 2008) 8,5 Boston, Mass. (Slash, 1985/ Wounded
Bird, 2008) 9 Stand Up (Slash, 1987/ Wounded Bird,
2008) 7 Smoking in the Fields (RCA, 1989) 10 The Best of the Del Fuegos: The Slash Years
(Warner Bros., 2001) - compilation dei primi tre album (il primo è riportato per
intero, più 8 canzoni da Boston e 2 da Stand Up)
Dan Zanes Cool Down Time (Private,
1995) 8 Warren Zanes Memory
Girls (Dualtone, 2003) 6,5 People That I'm Wrong For (Dualtone,
2006)