Attraversata da caos e violenza, la giovane America nell'estate
del 1968 assume i colori accesi di una protesta che
non può attendere oltre: per il crescente pantano militare
in Vietnam e i ragazzi nelle bare che tornano a casa, per
gli assassini in primavera di Martin Luther King e Robert
Kennedy, per una spaccatura verticale fra vecchie e nuove
generazioni, fra padri e figli, tra chi sognava il benessere
del boom economico dopo la Seconda Guerra Mondiale e chi invece
vuole ribaltare le priorità di una società materialista. Soltanto
un anno prima era esplosa la Summer of Love
di San Francisco, portata via dal vento gelido dell'autunno
e delle sconfitte degli hippies, con le loro ingenue e candide
visioni di un "mondo nuovo" immerso nell'espansione della
mente al grido di "turn on, tune in, drop out".
Ora ci sono Guardia Nazionale e polizia schierati a Chicago,
durante la convention del Partito Democratico che dovrà scegliere
il successore di Lyndon Johnson, pronti ad assaltare i dimostranti
che premono per un cambio di rotta: sono più agguerriti e
meno idealisti, incalzati dalla guida dei nuovi leader della
protesta, duri e puri. La colonna sonora di questa escalation
è fatta spesso di un rock'n'roll psichedelico e acidissimo,
di aperture oniriche e promesse di nuovi approdi: ci sono
Jefferson Airplane, Doors e l'intera California rock a cavalcare
questa onda. Eppure, dall'altra parte della riva comincia
ad emergere l'anima popolare e ancestrale dell'America, il
primo tentativo di una musica conciliante, aggrappata alla
memoria e alla comunicazione fra generazioni diverse, alla
riscoperta delle radici. Non per conservatorismo, tutt'altro,
ma per una direzione rappacificata dei valori in gioco.
E i suoni in campo diventano all'improvviso quelli di un nascente
ibrido chiamato country rock, del ritorno al folk, di un rock
pastorale e intriso di umori mistici e rurali, ma anche di
una rinnovata tradizione blues e soul che giunge alla sua
piena maturità. Questi dieci dischi sono un piccolo prontuario
per il cuore pulsante dell'Americana a venire, il 1968 visto
dalla prospettiva di chi cercava un luogo dove far crescere
canzoni che avessero un spirito antico dentro di loro.
[bonus
track]
Bob
Dylan John
Wesley Harding [Columbia]
C'è
l'inganno, è vero, una questione di dettagli nella cronologia: John Wesley
Harding porta la data del 27 dicembre 1967, ma è come se proiettasse la
sua lunga ombra sull'anno appena seguente e in realtà su un'intera stagione di
ritiro verso le radici del rock americano. Ancora una volta è il genio inafferrabile,
cangiante di Bob Dylan a dettare la via, lasciando tutti spiazzati. Il
ritiro a Big Pink dopo l'incidente motociclistico aveva alimentato un raccolto
di canzoni misteriose e dall'affalto religioso. John Welsey Harding fa parte a
pieno titolo di quella stagione, seppure non sia mai stata chiarita l'origine
delle sue composizioni: un ritorno all'acustico, all'austera atmosfera folk degli
esordi dopo la bolgia elettrica di Highway 61 e Blonde on Blonde, ma anche una
prospettiva del tutto personale, che rende i dodici brani dell'album un corpo
affascinante di liriche e suoni dall'abito agreste. Dylan incide parte del disco
negli studi della Columbia a Nashville con un combo ridotto all'osso, la sezione
ritmica formata da Charlie McCoy (basso) e Kenny Buttrey (batteria) che sbuffa
un essenziale folk rock (l'originale versione dell'enigmatica All Along the
Watchtower) e il solo Pete Drake ad aggiungere brevi fronzoli di pedal steel
in I'll Be Your Baby Tonight e Down Along the Cove, ambientando
il rivoluzionario verbo dylaniano nella scenografia country cittadina. Ciò che
rimane si sostiene sulle chitarre e il piano dello stesso Dylan (il secondo a
marcare la melodia struggente di Dear Landlord), che spesso soffia leggero
all'armonica, senza l'irrruenza del folksinger giovanile, semmai con tratti rigorosi
e candidi al tempo stesso. Le ballate intrecciano leggende da vecchio west, spirito
outlaw in anticipo sui tempi, come la stessa John Wesley Harding, ispirata
all'omonimo fuorilegge texano, o il singolo Drifter's Escape, e un immaginario
religioso, a volte surreale, che pervade I Dreamed I Sa St. Augustine e
la cavalcata di The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest. Il tono generale
tuttavia sembra essicare il linguaggio torrenziale di Dylan, una reazione che
disorienta lo spirito del tempo.
Battitori
liberi sulla scena incendiaria dell'acid rock di San Francisco, ma originari dei
sobborghi operai di El Cerrito, i Creedence Clearwater Revival si portano
appresso la solida educazione di rock'n'roll band maturata in un decennio di duro
lavoro nelle retrovie. Prima The Blue Velvets, poi Golliwogs, stupido nomignolo
che i fratelli Fogerty si vogliono scrollare di dosso, i nuovi Creedence firmano
per la Fantasy dell'ambizioso Saul Zaentz portando in dote qualche singolo (dalla
storia precedente arrivano Porterville e Walk on the Water) e una
nomea di garage band incline a ricreare le atmosfere del rock più tradizionale
degli anni cinquanta, tra i 45 giri della Sun e il blues della Chess, lì dove
affondano le radici musicali dei ragazzi. L'esordio omonimo è soltanto l'inizio
di una folgorante e breve stagione di canzoni e vendite milionarie, diventando
presto la coscienza popolare e blue collar dell'America in subbuglio. Il debutto
contiene già tutti i segnali del suono Creedence, che li fa scambiare facilmente
per un gruppo sudista, mille miglia lontano dalla California, mettendo in sequenza
blues rancorosi, ritmi swamp e rivisitazioni di classici del r&b nero più bollente
(Ninety- Nine and a Half di Wilson Pickett e lo strepitoso assalto di I
Put a Spell on You di Screamin' Jay Hawkins, vero tour de force per la voce
sporca di raucedine di John Fogerty). John prende saldamente il timone e non lo
mollerà più, lasciando agli altri membri le briciole, diventando il songwriter
per eccellenza della giovane America rinnegata e proletaria (le prime indicazioni
in The Working Man), quasi in antitesi alla ribellione della controcultura
studentesca. Il sound però non rinnega affatto la trascinante onda psichedelica
che giunge dalla Baia e in Creedence Cleawater Revival genera semmai
un cortocircuito affascinante fra swamp rock e visioni lisergiche: accade soprattutto
per la scomposizione in otto minuti del classico rockabilly di Dale Hawkins, Susie
Q, primo singolo di successo del gruppo nel giugno del 1968, pubblicato in
due facciate che disseminano una jam strumentale in cui la chitarra bellicosa
di John Fogerty mostra rabbia acid-blues.
09.
Beau
Brummels
Bradley's Barn [Warner]
Sono
passati soltanto tre anni dal clamoroso exploit di Laugh Laugh, uno dei
singoli più frizzanti della stagione innocente del garage rock americano, e una
delle risposte più convincenti alla cosiddetta "British invasion", utilizzando
le sue stesse armi. I Beau Brummels, formati dai vecchi compagni di adolescenza
Sal Valentino e Ron Elliott, aprono la stagione del suono di San Francisco, ma
non fanno in tempo a raccoglierne i frutti: nonostante l'originalità del materiale
del loro primo album, i tempi corrono veloci e tutto si infiamma al ritmo dell'acid
rock, mentre la band resta ancorata ad un contratto capestro con la Autumn records,
presto in totale fallimento, e la convinzione generale che il gruppo sia più adatto
a perpetrare lo stereotipo della copia beatlesiana. Rimasti in tre i Beau Brummels
attraversano il 1967 con un gioiello di pop psichedelico intitolato Triangle:
non se ne accorge praticamente nessuno e un anno dopo i soli Valentino e Elliott
fanno armi e bagagli per Nashville, dove un produttore più accorto come Lenny
Waronker (famoso il suo lavoro con Randy newman) li spinge verso una canzone acustica
e colorata di tonalità agresti. Il vento del country rock nascente sta per alzarsi,
ma anche in questa occasione i Beau Brummels ne raccoglieranno le briciole, lasciando
in eredità ai posteri un disco di culto come Bradley's Barn. Il
nome deriva dall'omonimo granaio trasformato in studio di incisione da Owen Bradley,
lì dove le canzoni del duo Valentino-Elliott si circondano di alcuni tra i migliori
musicisti dell'area, tra cui le chitarre di Jerry Reed, il piano di David Briggs
(poi con Neil Young) e la batteria di Kenny Buttrey (appena reduce dalla collaborazione
con Bob Dylan). È il canto del cigno per i Beau Brummels, scioltisi all'indomani
del silenzio che ricoprirà questa gemma, dove il folk rock delle origini in California
e le fragranze roots del Tennessee si sovrappongono, formando piccoli capolavori
come Turn Around, Little Bird e Deep Water, indolenti ballate
acustiche come Long Walking Down to Misery e veri e propri walzer country
quali The Loneliest Man in Town, tra melodie eccentriche e ironici saluti
al proprio passato (il finale di Bless You California).
08.
Taj
Mahal
The Natch'l Blues [Columbia]
L'omonimo
esordio esce nell'estate del 1968 e precede di pochi mesi la folgorante maturazione
artistica di The Natch'l Blues: entrambi i dischi presentano una
delle figure più spiritate ed eclettiche della nuova scena blues. Henry Saint
Clair Fredericks - in arte Taj Mahal per celebrare la figura di Gandhi
e il sogno di tolleranza e pacifismo - è figlio di un musicista e arrangiatore
con ascendenze caraibiche, e assorbe fin da ragazzo le policrome influenze della
musica nera, sia essa più legata alla tradizione del Delta o al nascente soul
che monta dal profondo sud. Il suo approccio, acustico ed elettrico al tempo stesso,
di impostazione rurale e con pulsoni rock, si forma nel viaggio compiuto verso
la California, dove dalla metà dei sixties Mahal si esibisce nei Rising Sons,
quintetto insieme a Ry Cooder, rimasto una promessa di quella stagione. Al momento
del debutto solista Taj Mahal sceglie una consapevole comunione con i maestri,
disseminando l'album di cover che formano un ponte fra passato e presente. The
Natch'l Blues è invece la dimostrazione che è pronto a traghettare il peso di
quella tradizione: le canzoni, questa volta in gran parte originali, possiedono
intensità e armonia per affrontare la sua condizione di autore di un nuovo modo
di intendere la materia blues, pur rispettandone la storia. Il disco è inciso
con un quartetto di base che rinsalda l'intesa con le chitarre di Jesse Ed Davis,
mettendo in comunicazione Mahal con la generazione folk rock della Bay area di
San Francisco. Uno dei brani trainanti è Corinna, intrisa di umori sudisti,
mentre le colorazioni acustiche di Good Morning Miss Brown e I Ain't
Gonna Let Nobody Steal My Jellyroll sembrano in generale connettere questo
country blues con le sue più antiche radici. The Natch'l Blues sorprende tuttavia
per la sua capacità di infondere un'atmosfera blues allargata, che dal Delta vola
a Chicago passando per Memphis e i Muscle Shoals: brillano le versione originale
di She Caught the Katy and Left Me a Mule to Ride, la rilettura in chiave
elettrica del traditional The Cuckoo e un finale che si infila dritto nella
rinascenza soul di Otis Redding con la cover di You Don't Miss Your Water,
piccolo classico a firma William Bell.
07.
Merle
Haggard
Mama Tried [Capitol]
Il
suono dell'America bianca e proletaria del 1968 ha un eroe, Merle Haggard.
Se qualcuno pensa che tutto questo significhi soltanto "reazione" e "conservazione"
non ha ben chiara la figura del musicista californiano. Anarchico e insofferente,
emarginato con la famiglia come tanti "Okies" che negli anni trenta trovarono
rifugio dalla Grande Depressione, delinquente giovanile che finisce in riformatorio
e sconta due anni a San Quintino per tentata rapina, Haggard guida la riscossa
di una country music che si ribella alle regole di Nashville e racconta il quotidiano
di chi tira a campare, vedendo nella contestazione e nella controcultura un tradimento.
È il suono di Bakersfield, che Merle contribuisce a costruire insieme all'altra
stella polare, quella di Buck Owens, tracciando il terreno per il country rock
a venire. Haggard però è il volto irrequieto e il cantore romantico dei fuggitivi,
l'anima working class di quella stagione, e in seguito uno dei giganti assoluti
del linguaggio country. Mama Tried vale per il contesto e per la
corrispondente canzone, uno dei classici indistruttibili del suo repertorio, ma
qualsiasi singolo e album pubblicato in quell'anno (sono tre in tutto, con l'apertura
a gennaio grazie alla strepitosa Sing Me Back Home) potrebbe fare al caso:
Haggard e i fedeli Strangers, essenziale banda che delinea il sound dell'epoca
(ci sono fra gli altri James Burton e Glenn Campbell alle chitarrre), sbaragliano
le classifiche e scalano le playlist radiofoniche con una sequenza di canzoni
che corteggiano il lato fuorilegge del protagonista, la sua biografia personale
e per esteso quella di un'America in perenne subbuglio tra peccato e redenzione.
Mama Tried è la confessione dei suoi errori da giovane teppista, ma l'inclusione
nel disco di Green Green Grass of Home e della ben nota Folson Prison
Blues di Johnny Cash (Haggard aveva assistito, da internato, a una delle famose
esibizioni carcerarie di quest'ultimo a San Quintino) delineano quasi una sorta
di concept sulla condizione del fuggiasco e del prigioniero.
06.
Dillard
& Clark
The Fantastic Expedition of Dillard & Clark [A&M]
L'alba
del country rock che pochi al tempo ebbero il tempo di celebrare, l'esordio di
Dillard & Clark abita i luogi appartati dei classici minori, disco essenziale
nel costruire il linguaggio della nuova musica pastorale americana, ma i cui frutti
saranno colti soltanto negli anni a venire. È il singolo scelto per il lancio
dell'album sul mercato americano a simboleggiare questa ingiustizia: il dolcissimo
intreccio di voci e chitarre acustiche di Train Leaves Here This Morning diventerà
uno dei primi fortunati successi per gli Eagles, ripresa nel loro debutto omonimo
del 1972. Prima del Big Bang californiano però, The Fantastic Expedition
of Dillard & Clark pianta i semi di una musica che echeggia memoria country
folk appalachiana, un florilegio di strumenti acustici e ballate dal tono rurale
in un'epoca di rivoluzione e acid rock, grazie all'incontro fra Clark e il banjo
di Doug Dillard. Quest'ultimo aveva lasciato da pochi mesi l'esperienza decennale
con il fratello Rodney nei Dillards, banda di inclinazione bluegrass che affondava
le radici nella tradizione sonora delle Ozark Mountain. Giunto sulla scena di
Los Angeles lo spirito affine è proprio quello di Gene Clark, architetto del cosiddetto
folk rock e di quel suono cristallino diffuso dai Byrds nel mondo, abbandonati
nel momento di massimo splendore a causa di un carattere continuamente assediato
dall'inquietudine. È soltanto l'inizio di una tormentata storia discografica per
lo stesso Clark, che aveva già tentato la fortuna con un disco insieme ai Gosdin
Brothers e si trova a riprendere i fili della carriera tornando alle origini della
sua figura di folksinger, quando aveva fatto i bagagli dal Missouri alla volta
della California. La spedizione di Dillard & Clark, infatti, si mette sulle tracce
di una musica che echeggia la grazia di un tempo perduto, trame bluegrass in She
Darked the Sun, In the Plan e nella riproposizione del classico di
Lester Flatt, Git It on Brother, sobbalzi folk blues in Don't Come Rollin',
tenerezze country in The Radio Song. Molti brani sono firmati da Clark
in coppia con lo stesso Dillard e con il giovane talento Bernie Leadon, banjoista
che guarda caso diventerà una delle colonne portanti degli Eagles nelle stagioni
successive.
05.
Dr.
John
Gris-Gris [Atlantic]
Roba
inaudita, nel senso più letterale del termine, quella che sbuca da una session
tenutasi quasi per miracolo presso gli studi Gold Star di Los Angeles. È l'amico
e arrangiatore Harold Battiste a trovare il luogo e persino un contratto con l'Atlantic
per Mac Rebennack, pianista di New Orleans in perenne equilibrio tra follia e
tradizione, fuggito dalla Big Easy per problemi legali (e di droga, tanta, troppa
droga) e da qualche anno musicista che sbarca il lunario partecipando alle mille
registrazioni della bolgia pop psichedelica in California. Gris-Gris
è ufficialmente l'esordio della figura mistica e magica di Dr. John, alter
ego di Rebennack che vuole fondere le radici più primordiali di New Orleans, il
suo voodoo e i ritmi tribali da Africa profonda (gris gris è il nome di un talismano
porta fortuna della tradizione della Lousiana) con la sensibilità rock più acida
e sognante dell'epoca. Il 1968 di Dr. John non assomiglia a nulla di quello che
lo circonda, è una specie di rito da Mardi Gras dove il barbuto musicista si traveste
con i custumi tipici della comunità indiana di New Orleans e sfodera una voce
sinistra, un talkin' malsano che nell'introduzione di Gris-Gris Gumbo Ya Ya
mette subito in chiaro l'accento di provenienza: dell'amuleto si è già detto,
mentre il gumbo è il piatto per eccellenza della memoria culinaria meticcia di
New Orleans e Ya Ya un richiamo al piccolo classico di Lee Dorsey, altra figura
musicale di culto in città. Il resto è un groviglio di ritmi funk e canti stregati,
di percussioni africane e radici blues in salsa psichedelica, un baccanale di
rumori e sonorità dove Dr. John gioca a fare il santone, ispirandosi nel nome
a John Montaigne, conosciuto anche come Bajou John, guaritore di metà ottocento.
Ad accompagnarlo in questo viaggio onirico ci sono musicisti che conoscono gli
stessi linguaggi e segreti, ondeggiando fra il ballo tribale di Danse Kalinda
ba Doom, il roots funk di Mama Roux e Danse Fambeaux, la struttuta
assolutamente freak e libera di Crooker Courtbullion, fino allo strepitoso
fluttuare ritmico di I Walk on Guilded Splinters, primo grande classico
firmato Dr. John, ispirato ad un canto voodoo e trasformato in otto minuti di
una strana pozione sonora.
04.
Aretha
Franklin
Lady Soul [Atlantic]
La
signora del soul, poi divenuta regina incontrastata, conquista definitivamente
il suo regno con il terzo album registrato per l'Atlantic, sotto la direzione
artistica di Jerry Wexler. Il cambio di rotta, che ha trasformato Aretha Franklin
da promessa un po' troppo disciplinata a vero portento della rivoluzione r&b,
è stato impresso grazie alla collaborazione di un team di musicisti e parolieri
che hanno cucito su di lei il sound e le emezioni più forti. Lady Soul,
all'alba del 1968, mantiene e amplifica le promesse dei due lavori precedenti,
sull'onda del trascinante successo di Respect, offrendo almeno due singoli
da antologia, annuncio dell'uscita imminente del disco. Il primo è una ballata
fremente che sale al cielo partendo dalla carica gospel della Franklin e abbracciando
il pop più sofisticato: (You Make Me Feel Like) a Natural Woman porta la
frima di Gerry Goffin e Carole King, ma diventa solo e soltanto una faccenda di
Aretha e di una autentica liberazione come donna. Il secondo è un persuasivo riff
di chitarra dalle candenze swamp sudiste, Chain of Fools, firmato dallo
specialista Don Covay, che si arricchisce dei cori delle sorelle Erma e Carolyn
Franklin, rendendo Aretha il contraltare femminile dello scomparso Otis Redding,
artista per il quale il brano era stato inizialmente pensato. Le sessioni raccolgono
una serie di incisioni partite nella primavera del '67 e completate a dicembre
con un parterre di invidiabili musicisti, gente che sa trattare il groove più
denso, ma anche sostenere l'esasperazione passionale della voce di Aretha: oltre
al pianista Spooner Oldham e la sezione fiati che arriva dritta dai Muscle Shoals,
si intrufolano le chitarre di Eric Clapton, che passa in studio e lascia un cameo
nel clamoroso blues di Good To Me As I Am to You. Il resto è storia della
soul music, anche al di fuori degli episodi più famosi: Lady Soul incarna il suono
Atlantic dell'epoca recuperando grandi classici come People Get Ready di
Curtis Mayfield e passando al setaccio i maestri James Brown (sua l'incalzante
Money Won't Change You) e Ray Charles (Come Back Baby).
03.
The
Byrds
Sweetheart of the Rodeo [Columbia]
Sono
cinque i mesi del periodo di ferma di Gram Parsons nei Byrds: quando Sweetheart
of the Rodeo uscirà ufficialmente alla fine di agosto del 1968, la presenza
del musicista è soltanto un ricordo, che tuttavia avrà impresso un cambiamento
epocale nella storia del gruppo e in quella del country rock californiano. La
svolta iconoclasta di una delle band di punta della rivoluzione psichedelica e
del cosidetto folk rock nati attorno alla scena di Los Angeles è uno dei passaggi
più importanti e sofferti dell'epoca. Un manipolo di musicisti della controcultura,
ma da sempre affascinati dal gioco dei rimandi del folklore americano, decide
di saltare la staccionata e abbeverarsi alla fonte della tradizione: Sweetheart
of the Rodeo è un disco disseminato di vecchie anticaglie folk dell'Appalachian
music, di dolci steel guitar nashvilliane, di ballate da fuorilegge e gospel bianchi,
di musica sudista che interseca country e soul. Una rivoluzione a suo modo, oltraggiosa
per il pubblico dell'acid rock, impresentabile per i conservatori e i custodi
della tradizione. Sballottati nella terra di mezzo i Byrds viaggiano alla ricerca
di un tempo perduto e di un suono cristallino, dove allo scintillare jingle jangle
si sostituisce il tintinnio di banjo e chitarre acustiche. Inciso in due sessioni,
fra Nashville e Hollywood, nella prima vera del '68, l'album echeggia una purezza
e ingenuità che nelle intenzioni di Roger McGuinn e soci doveva tramutarsi in
un ambizioso doppio album, che ripercorresse un intero secolo di musica americana.
Rimangono i saliscendi agrodolci di You Ain't Goin' Nowhere, ballata dell'amato
Dylan che serve da ponte con il passato, prima che si aprano le porte della memoria,
fra una Pretty Boy Floyd firmata Woody Guthrie, il classico di Louvin Brothers
The Christian Life e persino una Life in Prison dell'eroe blue collar
e simbolo dell'America reazionaria anti-hippie Merle Haggard. Parsons, prima di
lasciare i compagni, semina capolavori ed eredità importanti, con Hickory Wind
e One Hundred Years From Now: problemi contrattuali legati al suo precedente
gruppo, la International Submarine Band, forzeranno McGuinn a sostituire le parti
vocali soliste di Gram, ma il risultato sarà comunque l'alba di una nuova era.
02.
Johnny
Cash
At Folsom Prison [Columbia]
Testardo
come un mulo, Johnny Cash battaglia giorno dopo giorno con la Columbia.
Trova finalmente una spalla nella figura del produttore Bob Johnston, al tempo
in ascesa grazie al lavoro svolto con Bob Dylan, che convince l'etichetta riguardo
la bontà di registrare Cash dal vivo in un carcere. Un'attività che "The
Man in Black" porta avanti da anni, essendosi già esibito in famigerati penitenziari
come San Quintino e Huntsville. A rispondere all'appello è il complesso di Folsom
in California, venticinque miglia ad est di Sacramento, cinque blocchi di celle
per tremilacinquecento internati. Le mura di granito di Folsom inghiottivano gli
"ospiti" appena ci mettevano piede, salivano al cielo e si perdevano nel vuoto.
Johnny Cash vi approda alla metà di gennaio del '68 per due show consecutivi registrati
nella stessa giornata. Sarà il disco della rinascita, dopo qualche stagione di
insuccessi e di rovinose dipendenze dalle droghe. At Folsom Prison è
un trionfale live album che santifica Cash come eroe degli esclusi, artista e
uomo che porta sulle spalle il peso dell'altra America. Johnny aveva intuito,
in piena rivoluzione del 1968, che una delle facce più autentiche del paese era
rinchiusa dentro quelle mura e voleva cantarne la sconfitta, come aveva sempre
fatto, stando dalla parte dei dannati, fianco a fianco con il fallimento. Gli
ospiti erano l'umanità più reietta e pericolosa che il sogno americano potesse
aver creato. Johnny voleva alleggerire il loro dolore: cammino con voi, sembrava
voler dire, non vi ho dimenticati ragazzi. Il repertorio è disseminato di canzoni
che sobillano il pubblico, Folsom e le sue urla paiono una bolgia nei solchi del
disco: con i Tennessee Three al fianco, l'amico Carl Perkins e June Carter ai
cori, la nuova versione di Folsom Prison Blues riporta il country fuorilegge
di Johnny in vetta alle classifiche, ma Cocaine Blues, 25 Minutes to
Go, The Wall o I Got Stripes non sono da meno nel descrivere
la condizione del carcerato, a volte con ironia sferzante, altre con provocazione.
Nel mezzo una manciata di classici e tradizionali entrati ormai nel canone di
Cash (I Still Miss Someone, The Long Black Veil) e il vezzo di alleggerire
l'atmosfera tagliente della prigione con qualche brano farsesco come Flushed
From the Bathroom of Your Heart.
01.
The
Band
Music From the Big Pink [Columbia]
L'album
più influente dell'altro '68 americano, senza tema di
smentite il luogo in cui una musica dal cuore antico,
dai richiami pastorali, misteriosi, legata a doppio
filo alla grande tradizione folk ribalta il punto di
vista di una generazione in piena ribellione. Lo "scandalo"
è che a compiere questo splendido ribaltamento di significato
siano quattro musicisti canadesi (e un solo batterista
dell'Arkansas) che tratteggiano testi enigmatici e intrisi
di metafore religiose (To Kingdome Come, Chest
Fever, il capolavoro The Weight, presto reso
immortale nella colonna sonora del film "Easy Rider")
e un intreccio di sonorità che sembra avere condensato
un secolo di american music, dai canti gospel al soul,
dai minstrel shows alla rivoluzione folk rock di Dylan.
Proprio il binomio artistico stretto con quest'ultimo
è alla radice della nascita di Music from Big
Pink: la casa rosa entra nella storia iconografica
di quegli anni, luogo nella contea di West Saugerties,
stato di New York, dove Robbie Robertson, Rick Danko,
Garth Hudson, Richard Manuel e un sopraggiunto Levon
Helm hanno maturato i "nastri della cantina", The Basement
Tapes, registrazioni informali e mistiche sorte dopo
il buon ritiro di Dylan dalla ribalta e da lui dirette
in pirma persona. Music from Big Pink in verità si forma
concettualmente in quel 1967 (Tears of rage e
Wheels of Fire sono co-firmate dallo stesso Bob
Dylan, che concede anche il dipinto in copertina), ma
intraprende le sue registrazioni l'anno seguente, fra
il settimo piano di un palazzo di Manhattan e gli studi
della Capitol a Los Angeles, etichetta che nel frattempo
ha messo sotto contratto il gruppo. Si fanno chiamare
The Band, quasi una dichiarazione dimessa, un
atto "rivoluzionario" nella sua apparente accondiscendenza,
per nascondersi dietro e dentro le canzoni. All'interno
del vinile i musicisti sono fotografati insieme a quattro
generazioni di parenti, dai bambini agli anziani, allegoria
di un'America che cerca una riconciliazione. La musica
gronda un arcadico senso di mistero e fierezza, tradizione
che si fa nuova frontiera, così come i singoli membri
di The Band, ritratti in vecchie giacche ottocentesche
da pionieri.