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Cary
Hudson (& Blue Mountain)
Lonesome Boy From Dixie |
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"Ho i piedi delicati. Non ho mai passato
più di tanto tempo a camminare a piedi nudi. Marilyn lo faceva,
invece. I suoi piedi erano dannatamente resistenti. Poteva
camminare sui chiodi, sulla ghiaia, su qualsiasi cosa. Poteva
anche passeggiare su di te come una stronza. Davvero sapeva
come farlo".
(Larry Brown, 92 Giorni, Mattioli 1885, 2010 ) |
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A
cura di Gianfranco Callieri | ||||
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Influenzato in
egual misura dall'umorismo acre del primo William Saroyan,
dai disperati morsi alla vita di Charles Bukowski e dal grottesco,
sferzante squallore degli ambienti descritti nei libri di
Harry Crews, Larry Brown, prematuramente scomparso
nel 2004, all'età di 53 anni anni, a causa di un infarto fulminante,
è stato per diversi anni il poet laureate ufficioso del Mississippi,
lo stato dov'era nato e che nei suoi racconti e romanzi non
ha mai smesso di indagare, ritrarre, analizzare. 92
Giorni, a oggi, resta, tra le sue opere, l'unica disponibile
in italiano, ed è un peccato che la pur meritoria Mattioli
1885 abbia deciso di pubblicare solo l'omonimo racconto lungo
(peraltro tradotto benissimo da Paolo Cioni e Nicola Manuppelli)
e non l'intera raccolta di short-stories da cui è tratto,
Big Bad Love (1990), dove 92 Days era, appunto, l'ultimo tassello
di una galleria narrativa capace, in poche righe, di evocare
umori e mentalità del sud degli Stati Uniti con efficacia
maggiore rispetto a qualsiasi enciclopedia o documentario.
"Le persone con problemi", ebbe a dire Brown un giorno, "sono
quelle che conosco meglio, quelle con le quali sono cresciuto",
una frase la cui evidenza è testimoniata dalla forza di uno
stile tutto costruito sulle sottrazioni e sulle imprevedibili
biforcazioni dei percorsi della vita quotidiana, tra disavventure
economiche e repentini squarci di aggressività, personaggi
bizzarri e un flusso inarrestabile di alcolici. Nel frattempo,
John Stirratt si è unito agli Uncle Tupelo, mentre Laurie
e Cary, sposatisi, hanno dato vita ai Blue Mountain,
dal nome di una comunità rurale situata a est di Oxford, Mississippi.
Il primo lavoro, l'eponimo Blue Mountain (1993), conosciuto
anche come "The Lite-Brite album" per via di una copertina
ispirata a un celebre gioco per bambini dei '70, contiene
una formulazione già viscerale, sebbene ancora acerba, di
un un po' tutti i temi destinati a contraddistinguere la piccola
rivoluzione rootsy del gruppo, che in futuro non esiterà a
ripescarne i brani in versioni meglio sviluppate. Eppure,
le canzoni di Blue Mountain, ancorché poco rifinite, sono
tutt'altro che trascurabili: nessuno, forse, riuscirà mai
a ricordare il nome del batterista Matt Brennan, ma il muro
di suono punk-blues creato dal trio nel rileggere il traditional
Go 'Way Devil, la malinconia folkie della struggente
In A Station
o le unghiate bluesy di Song
Without A Name e Westbound
colpiscono nel segno ricorrendo a una forma di risveglio elettrico
del milieu americano country/folk che non è il cow-punk di
Jason & The Scorchers, il classic-rock elegiaco e cristallino
dei Jayhawks o lo sferragliare tra Bob Dylan e i Black Flag
degli Uncle Tupelo, tutte operazioni condotte dai rispettivi
autori con solida coscienza meta-testuale, cioè sapendo esattamente
quali ingredienti utilizzare allo scopo di raggiungere un
certo risultato (anche quando, come nel caso degli inceneritori
nashvilliani di Jason Ringenberg, la manovra nasce da presupposti
a metà strada tra il dileggio e l'amore per le radici).
La
magia si ripete in Homegrown, secondo molti persino migliore, che
sin dall'iniziale Bloody 98, martellante country-ballad
tra Pogues e Grifters, suona più rifinito del predecessore. L'effetto, peraltro
assai meno avvertibile sotto il profilo delle liriche, di nuovo dedicate al vivido
immaginario sudista di Hudson, è da ascriversi al missaggio dell'esperto Jim Scott,
quasi mainstream nella composizione di un suono tra l'epica rock di Tom Petty
(Generic America) e un Johnny Cash stravolto
dal punk (Black Dog). Manca insomma l'effetto sorpresa, ma l'up-tempo folkie
di Myrna Lee e le ballatone country-rock Ira
Magee, Pretty Please e Town Clown, in un intreccio countreggiante
di chitarre twangy e nostalgie di epoche passate, continuano a funzionare a pieno
regime. Ottimo, inoltre, è il rock-blues secco ed evocativo di Last
Words Of Midnight Clyde, ennesimo esempio della felicità del gruppo
nel mischiare impianti acustici e brusche esplosioni elettriche in un continuo
gioco di rimandi fra passato e presente. Tre anni dopo, presso la personale etichetta
dei nostri (Black Dog Records), appare l'estemporaneo e divertentissimo Rock
& Roll Summer Camp '98, registrato da Blue Mountain e Marah, insieme a
vari amici di entrambe le formazioni (Tyler Keith dei Neckbones, John Stirratt,
Noah Saterstrom etc.), nel buen retiro di Monticello, Mississippi, in un'estate
consumata tra vecchi strumenti, campfire songs e voglia di divertirsi in compagnia.
Difficile stilare classifiche riguardo a un progetto evidentemente for fun only,
ma se il brano migliore (Grey & Blue, maestoso
country-folk con l'Irlanda nel cuore) è di Serge Bielanko dei Marah e quello più
compiuto (Not So Far Away, delizioso pop'n'country
elettrico con qualcosa dei primi Wilco) di John Stirratt, a Cary Hudson, in virtù
delle prodezze compiute alla slide durante l'esecuzione a dir poco rocambolesca
del traditional Crow Jane, spetta senz'altro la palma del musicista più
in gamba.
Tonight
It's Now Or Never ('02) esce quasi sordina a una stagione di distanza
e, oltre a segnare un nuovo cambio di batterista (il pur ottimo Ted Gainey in
luogo del solito Coutch), circoscrive purtroppo anche l'epitaffio della band.
Il quale epitaffio, diciamolo pure, poteva essere non più intenso né più selvatico
(nei due cd dal vivo, registrati nella notte dell'addio dell'11 marzo 2001, allo
Schuba's Tavern di Chicago, affiora l'anima più ruvida e incendiaria del gruppo),
ma soltanto meglio registrato, giacché la qualità sonora dell'insieme risulta
perfino peggiore rispetto a quella del più scalcinato bootleg. Lo stesso anno,
per fortuna, arriva anche l'esordio solista di Cary Hudson, The Phoenix,
di nuovo in trio, di nuovo intento a raccontare storie e colori di un'America
forse ricordata soltanto in certe canzoni, di nuovo orgogliosamente ai margini
del music-biz. L'album assomiglia a una trascrizione più bluesy e sudista dei
lavori dei Blue Moutain, rispetto ai quali accantona almeno in parte il coté hillbilly
per dedicarsi a un'intensa esplorazione dei suoni più riposti dell'amato Mississippi,
ora declinato in chiave rockista (la sferzante Mad, Bad
& Dangerous) ora in chiave folk-blues (August Afternoon), ora
raccontato attraverso pagine di pura ascendenza garage (Bend With The Wind
e God Don't Never Change paiono sbucare
dalla scuola di Junior Kimbrough o RL Burnside) ora affidato a commosse malinconie
country-rock (la title-track). C'è spazio anche per un inchino a Lowell George
(High Heel Sneakers deve molto ai Little Feat),
il cui spirito, in santissima trinità di viventi e trapassati con Ry Cooder e
Dr John, echeggia pure nelle note dell'occasionale, ancorché devastante, Live
In Wredenhagen ('02), accreditato a Cary Hudson Electric Trio, cadeaux
dal vivo per fans incalliti impreziosito da una grande versione della classica
Jesus On The Mainline e dalla trascinante sfuriata hard-blues di una Black
Dog mai così brutale.
Piuttosto
sorprendente è anche l'imprevisto ritorno dei Blue Mountain: l'etichetta, stavolta,
è la Broadmoor Records fondata da Laurie e John Stirratt per pubblicare il discreto
Arabella ('03) e i dischi degli Autumn Defense capitanati dal secondo,
a restare invariati sono l'organico del terzetto e le canzoni. Omnibus
('08) è infatti un ripasso, giacché parlare di greatest-hits sarebbe forse eccessivo,
dei brani più significativi della band, quattordici pezzi appositamente rivisitati
e - parere personale - forse corretti in modo fin troppo sistematico, fino a far
evaporare del tutto quella patina tra antico e moderno che li rendeva speciali.
Per chi non le conoscesse, le varie Bloody 98, Blue Canoe, Mountain Girl o Hippy
Hotel, nel loro caratteristico intercalare di country, blues e folk, potrebbero
ancora costituire un'epifania di quelle folgoranti, mentre le tracce più rock
(bene il selvaggio baccano rootsy di Sleepin' In My Shoes, meno bene una Generic
America smussata d'ogni spigolo) appaino davvero troppo canoniche e risapute,
nei suoni perlomeno, per non far rimpiangere i prototipi. Logico, a questo punto,
che anche il successivo Midnight In Mississippi ('08) sembri frutto
di un'interlocuzione non proprio riuscitissima tra le radici rock e blues della
band e il tentativo di suonare accessibili anche presso un pubblico più vasto.
Così, accanto a scelte piuttosto incomprensibili (d'accordo riprendere Pretty
Please da Homegrown, ma perché farla uguale alla precedente versione?), emergono
episodi abbastanza difficili da contestualizzare nel percorso dei Blue Mountain
(70's Song cita apertamente la Jackie Blue degli Ozark Mountain Daredevils,
e sia, ma su una citazione non si costruisce un pezzo) e diverse parentesi di
stanchezza creativa (si ascolti Rainy Day, tanto gentile quanto evanescente),
autorizzando il sospetto che l'album demarchi soprattutto un'altra fase di incertezza
e provvisorietà. Nonostante questo, il fragore dei vecchi Blue Mountain è tutt'altro
che sopito, e se nell'incredibile, rabbioso sconquasso elettrico della title-track
e nella sguaiata cavalcata blues d'una Skinny Dipping
sudicia come il più malfamato dei juke-joints torna ad esplodere in tutta la sua
forza rockista, nel roots-rock elettroacustico di Emily
Smiles (da qualche parte tra Dave Alvin e gli Smashing Pumpkins) e
nel laid-back gradevolmente funky di Groove Me
trova persino nuove aperture e suggestioni inedite. | ||||
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