Cary Hudson (& Blue Mountain) 
Lonesome Boy From Dixie
   
"Ho i piedi delicati. Non ho mai passato più di tanto tempo a camminare a piedi nudi. Marilyn lo faceva, invece. I suoi piedi erano dannatamente resistenti. Poteva camminare sui chiodi, sulla ghiaia, su qualsiasi cosa. Poteva anche passeggiare su di te come una stronza. Davvero sapeva come farlo".
(Larry Brown, 92 Giorni, Mattioli 1885, 2010 )


:: Ritratto: i Blue Mountain e la carriera solista
A cura di Gianfranco Callieri

 

Influenzato in egual misura dall'umorismo acre del primo William Saroyan, dai disperati morsi alla vita di Charles Bukowski e dal grottesco, sferzante squallore degli ambienti descritti nei libri di Harry Crews, Larry Brown, prematuramente scomparso nel 2004, all'età di 53 anni anni, a causa di un infarto fulminante, è stato per diversi anni il poet laureate ufficioso del Mississippi, lo stato dov'era nato e che nei suoi racconti e romanzi non ha mai smesso di indagare, ritrarre, analizzare. 92 Giorni, a oggi, resta, tra le sue opere, l'unica disponibile in italiano, ed è un peccato che la pur meritoria Mattioli 1885 abbia deciso di pubblicare solo l'omonimo racconto lungo (peraltro tradotto benissimo da Paolo Cioni e Nicola Manuppelli) e non l'intera raccolta di short-stories da cui è tratto, Big Bad Love (1990), dove 92 Days era, appunto, l'ultimo tassello di una galleria narrativa capace, in poche righe, di evocare umori e mentalità del sud degli Stati Uniti con efficacia maggiore rispetto a qualsiasi enciclopedia o documentario. "Le persone con problemi", ebbe a dire Brown un giorno, "sono quelle che conosco meglio, quelle con le quali sono cresciuto", una frase la cui evidenza è testimoniata dalla forza di uno stile tutto costruito sulle sottrazioni e sulle imprevedibili biforcazioni dei percorsi della vita quotidiana, tra disavventure economiche e repentini squarci di aggressività, personaggi bizzarri e un flusso inarrestabile di alcolici.

Leggendo le pagine dell'ex-pompiere Brown si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un'umanità armata soprattutto di candore e sincerità, cui è facile affezionarsi anche questo indulge in comportamenti imperdonabili; un'umanità che l'autore, fraternizzando con essa, non ha paura di mostrare nei suoi difetti, nelle sue paure e persino nelle sue ovvietà, mettendosi a nudo di fronte al lettore ed esibendogli nudità e fragilità incontestabili. Non si colgono mai, nei libri di Brown, accenni di furbizia, overacting di scrittura o frasi che non significhino esattamente quanto riportato dal segno grafico: nessuna maschera, insomma. Solo le decisioni, spesso discutibili ma proprio per questo tanto più umane e dirette, di solitari per scelta e ben poco romantici perdenti, ognuno di essi disponibile a mettersi in scena senza filtri.

Le stesse decisioni, gli stessi sogni infranti e la stessa consapevolezza nello scegliere una vita ai margini, caratterizzano da sempre anche il songwriting di Cary Hudson, altro figlio del Mississippi (è nato a Sumrall, vicino a Hattiesburg, una delle zone più democratiche del Sud, sede, negli anni '60, del Mississippi Freedom Democratic Party), e in particolar modo una delle sue canzoni-manifesto, ovvero quella Generic America dove, senza mezzi termini, paragonava i grandi centri commerciali americani a vere e proprie prigioni e dichiarava di rifiutare ruoli preconfezionati e realtà virtuali, ai quali preferiva una ricerca di sé condotta fuori dagli schemi. È ancora così, Cary Hudson: attaccato al suo mondo, alle sue chitarre (sentirlo suonare una Gibson vuol dire entrare a contatto con uno dei fraseggi più efficaci e riconoscibili dell'intero panorama roots), al suo Mississippi devastato dall'uragano Katrina, fieramente luddista allorché si discute di internet e dintorni, privo di compromessi sia nell'incidere album sempre più austeri ed essenziali sia, poi, nel diffonderli ricorrendo a un severo regime di autoproduzione e autopromozione.

Non è un caso, quindi, che la firma in calce alle note di Homegrown ('97), il secondo album di quei Blue Mountain alla guida dei quali Hudson, in pratica, si inventò il concetto stesso di alt.country (nonché il disco della citata Generic America), sia proprio quella di Larry Brown, fan ovviamente sfegatato di una band con la quale condivideva orizzonti, stimoli e radici. La storia di Cary Hudson, tuttavia, prende le mosse ancor prima dei Blue Mountain (i loro primi album, sorprendentemente pubblicati da un'etichetta di stretta osservanza metal come la RoadRunner, risalgono agli albori dei '90). È infatti nel 1988 che Cary prende il posto del cugino Chris Hudson negli Hi-Tops, cover-band formata da John Stirratt (oggi bassista dei Wilco) nelle classi della University Of Mississippi. I due si ribattezzano Hilltops e, arruolata Laurie Stirratt - la sorella di John - come bassista, iniziano a macinare grezze e irresistibili accozzaglie di country e punk, "la furiosa velocità degli Hüsker Dü fusa al melodico tintinnare di REM e Replacements" (Jamie Quatro). Forse troppo in anticipo sui tempi di un decennio contraddistinto dall'alternarsi di glaciali soluzioni sintetiche e seriosissimi sfoggi di (pseudo)coerenza indie, gli Hilltops non accendono alcun interesse presso il pubblico delle labels indipendenti e Big Black River, il disco del debutto ufficiale dopo un'audiocassetta incisa alla meno peggio (Holler, '90), nonostante sia pronto da almeno due anni, viene pubblicato solo nel 1993 grazie all'interessamento della minuscola Fishtone.

Nel frattempo, John Stirratt si è unito agli Uncle Tupelo, mentre Laurie e Cary, sposatisi, hanno dato vita ai Blue Mountain, dal nome di una comunità rurale situata a est di Oxford, Mississippi. Il primo lavoro, l'eponimo Blue Mountain (1993), conosciuto anche come "The Lite-Brite album" per via di una copertina ispirata a un celebre gioco per bambini dei '70, contiene una formulazione già viscerale, sebbene ancora acerba, di un un po' tutti i temi destinati a contraddistinguere la piccola rivoluzione rootsy del gruppo, che in futuro non esiterà a ripescarne i brani in versioni meglio sviluppate. Eppure, le canzoni di Blue Mountain, ancorché poco rifinite, sono tutt'altro che trascurabili: nessuno, forse, riuscirà mai a ricordare il nome del batterista Matt Brennan, ma il muro di suono punk-blues creato dal trio nel rileggere il traditional Go 'Way Devil, la malinconia folkie della struggente In A Station o le unghiate bluesy di Song Without A Name e Westbound colpiscono nel segno ricorrendo a una forma di risveglio elettrico del milieu americano country/folk che non è il cow-punk di Jason & The Scorchers, il classic-rock elegiaco e cristallino dei Jayhawks o lo sferragliare tra Bob Dylan e i Black Flag degli Uncle Tupelo, tutte operazioni condotte dai rispettivi autori con solida coscienza meta-testuale, cioè sapendo esattamente quali ingredienti utilizzare allo scopo di raggiungere un certo risultato (anche quando, come nel caso degli inceneritori nashvilliani di Jason Ringenberg, la manovra nasce da presupposti a metà strada tra il dileggio e l'amore per le radici).

A colpire, nei Blue Mountain, sono prima di tutto la naturalezza e il realismo dell'approccio, creativo ma ingenuo, originale ma spontaneo: quello di Laurie Stirratt e Cary Hudson non sembra affatto il tentativo di ottenere dal sound di country e folk qualcosa di diverso dalla pura evidenza del retaggio tradizionalista, bensì una nuova interpretazione, tanto audace quanto genuina, di canzoni apprese da genitori e fratelli maggiori, un passaggio di testimone tra generazioni che, come nei romanzi di Larry Brown, acquisisce profondità ed efficacia proprio nella misura in cui evita accuratamente di millantare rivoluzioni o cambiamenti epocali per incidere a fondo sullo scheletro di canzoni, melodie e storytelling.

Il quadro diventa ancor più chiaro nelle liriche di A Band Called Bud, dal successivo Dog Days ('95), ritratto impressionista della vita on the road di un qualsiasi gruppo della provincia americana (abituati "a fumare marijuana come tutte le band / a vivere nel loro furgone quando si ritrovano senza un quattrino") espunto da qualsiasi sfumatura di romanticismo o idealizzazione ma, proprio per questo, del tutto onesto e credibile. Dog Days è il personale capolavoro dei Blue Mountain e uno degli album più belli ed emozionanti, se non "il" più bello ed emozionante, in tutta l'epopea minore di ciò che ci siamo abituati a chiamare insurgent country. Non padroneggia né il crossover tra pop e radici dei Whiskeytown né la grandeur rockista dei primi Wilco (né, tantomeno, il frisson gotico dei 16 Horsepower), eppure, nonostante o - chissà - proprio in virtù di questo, riesce a riannodare quarant'anni di rock e radici con grazia, affetto e furore impareggiabili, mandando a nozze punk e blues, country e hardcore, hillbilly e rock'n'roll in una cerimonia che si vorrebbe soltanto non finisse mai. Prodotto da Eric "Roscoe" Ambel (Del Lords) e movimentato dal drumming devastante del nuovo arrivato Frank Coutch, il disco allinea country-rock elettroacustici (la deliziosa Mountain Girl e un'altrettanto splendida Blue Canoe), artiglieria pesante da band sudista (ascoltate il gospel in chiave hard-rock della stupenda Soul Sister o gli scossoni rock dell'allucinata Let's Ride), punk fiammeggiante per chitarre acustiche (Slow Suicide, magnifica) e boogie ossessivi e distorti (A Band Called Bud) senza mai perdere di vista la freschezza poetica della tradizione, omaggiata nelle funeree diminuite di una raggelante Epitaph come nel puro bozzetto old-timey di Jimmy Carter. A svettare su tutto, l'atmosfera in miracoloso equilibrio tra antico e moderno di un disco rock dalla prima all'ultima nota, però animato dalla volontà (virtuosa) di tenere assieme le radici e il loro sorpasso, con il fantasma di Neil Young evocato da ogni intervento della sei corde di Hudson e il fardello della tradizione spalmato su un nuovo paesaggio sonoro al tempo stesso bucolico e iconoclasta, sospeso tra folklore e incandescenti visioni elettriche.

La magia si ripete in Homegrown, secondo molti persino migliore, che sin dall'iniziale Bloody 98, martellante country-ballad tra Pogues e Grifters, suona più rifinito del predecessore. L'effetto, peraltro assai meno avvertibile sotto il profilo delle liriche, di nuovo dedicate al vivido immaginario sudista di Hudson, è da ascriversi al missaggio dell'esperto Jim Scott, quasi mainstream nella composizione di un suono tra l'epica rock di Tom Petty (Generic America) e un Johnny Cash stravolto dal punk (Black Dog). Manca insomma l'effetto sorpresa, ma l'up-tempo folkie di Myrna Lee e le ballatone country-rock Ira Magee, Pretty Please e Town Clown, in un intreccio countreggiante di chitarre twangy e nostalgie di epoche passate, continuano a funzionare a pieno regime. Ottimo, inoltre, è il rock-blues secco ed evocativo di Last Words Of Midnight Clyde, ennesimo esempio della felicità del gruppo nel mischiare impianti acustici e brusche esplosioni elettriche in un continuo gioco di rimandi fra passato e presente. Tre anni dopo, presso la personale etichetta dei nostri (Black Dog Records), appare l'estemporaneo e divertentissimo Rock & Roll Summer Camp '98, registrato da Blue Mountain e Marah, insieme a vari amici di entrambe le formazioni (Tyler Keith dei Neckbones, John Stirratt, Noah Saterstrom etc.), nel buen retiro di Monticello, Mississippi, in un'estate consumata tra vecchi strumenti, campfire songs e voglia di divertirsi in compagnia. Difficile stilare classifiche riguardo a un progetto evidentemente for fun only, ma se il brano migliore (Grey & Blue, maestoso country-folk con l'Irlanda nel cuore) è di Serge Bielanko dei Marah e quello più compiuto (Not So Far Away, delizioso pop'n'country elettrico con qualcosa dei primi Wilco) di John Stirratt, a Cary Hudson, in virtù delle prodezze compiute alla slide durante l'esecuzione a dir poco rocambolesca del traditional Crow Jane, spetta senz'altro la palma del musicista più in gamba.

Tales Of A Traveler ('99), l'effettivo terzo album dei Blue Mountain, raggiunge gli scaffali dei negozi di dischi in un momento di impasse. Nonostante l'album sia di nuovo marchiato RoadRunner, l'etichetta non fa nulla per promuovere il gruppo, e le tensioni interne cominciano ad affiorare. Viene reclutato l'amico George Sheldon al basso e Laurie Stirratt passa alla sei corde acustica, un cambiamento mai accettato fino in fondo. Ne risulta un lavoro la cui principale cifra stilistica è l'indecisione. A produrre c'è Dan Baird (Georgia Satellites), riconoscibilissimo nelle frustate rockinrolliste di Comicbook Kid, nel lercio rhytm'n'blues di Sleepin' In My Shoes e nel torrido funk-soul di My Wicked, Wicked Ways (Don Heffington ai tamburi), ma il disco, alla fine, non è neppure selvaggio come la sua presenza in cabina di regia avrebbe fatto sperare. Predomina un'alternanza di toni e strutture senz'altro gradevole ma mai davvero dialettica, sicché si finisce per non capire cos'abbiano in comune il malinconico folk-pop elettrificato di When You're Not Mine e il delicatissimo shuffle per trombone della conclusiva Just Passing Through (peraltro due brani deliziosi) se non il fatto di trovarsi sul medesimo album. Non è un brutto disco, Tales Of A Traveler: a penalizzarlo, semmai, è una successione di brani in apparenza scollegati, dove il tentativo di ordinare le tappe di un viaggio immaginario attraverso i caratteri del profondo Sud (all'insegna, quindi, di soul, blues e southern-rock) sembra più vagheggiato che effettivo. Roots ('01) torna all'origine, alle ossa e alle anime dei pionieri e degli immigrati con una forza e un'onestà fuori dal comune: 14 traditionals e due o tre vetustà da intenditori rilette in modo appassionato e agguerrito, gli incantesimi arcaici delle radici che incontrano l'ethos di un vertiginoso sfogo punk'n'roll. Non è solo il magnifico canto del cigno di una band condannata a una sempiterna sottovalutazione, ma l'attestazione probante di come ogni musica, per sopravvivere, debba ricorrere al meticciato, in questo caso tra energia rockista e rispetto filologico degli stilemi del passato (o, viceversa, che fa lo stesso). Se la dolcezza malinconica di Rye Whiskey, di Rain And Snow e di tutte le altre ballate appalachiane raccolte in Roots non è inedita, è tuttavia sorprendente il rigore col quale i Blue Mountain le affrontano, infiammandosi appena un poco nel blues garagista di Riley And Spencer e in quello nero come la pece di una sulfurea That Nasty Swing, prelevata dal repertorio dello yodeler del Kentucky Cliff Carlisle. Bellissime e accorate sono pure Black Is The Color Of My True Love's Hair, Young And Tender Ladies e soprattutto una toccante I'm Thinking Tonight Of My Blue Eyes (Carter Family), contraltari quasi programmatici della scombussolante baraonda elettrica che, inaugurata dal punk-blues scorticato di Go Away Devil, si protrae verso il gran finale culminante in una Country Blues di rara violenza hard, dove l'autore Dock Boggs incontra i Led Zeppelin.

Tonight It's Now Or Never ('02) esce quasi sordina a una stagione di distanza e, oltre a segnare un nuovo cambio di batterista (il pur ottimo Ted Gainey in luogo del solito Coutch), circoscrive purtroppo anche l'epitaffio della band. Il quale epitaffio, diciamolo pure, poteva essere non più intenso né più selvatico (nei due cd dal vivo, registrati nella notte dell'addio dell'11 marzo 2001, allo Schuba's Tavern di Chicago, affiora l'anima più ruvida e incendiaria del gruppo), ma soltanto meglio registrato, giacché la qualità sonora dell'insieme risulta perfino peggiore rispetto a quella del più scalcinato bootleg. Lo stesso anno, per fortuna, arriva anche l'esordio solista di Cary Hudson, The Phoenix, di nuovo in trio, di nuovo intento a raccontare storie e colori di un'America forse ricordata soltanto in certe canzoni, di nuovo orgogliosamente ai margini del music-biz. L'album assomiglia a una trascrizione più bluesy e sudista dei lavori dei Blue Moutain, rispetto ai quali accantona almeno in parte il coté hillbilly per dedicarsi a un'intensa esplorazione dei suoni più riposti dell'amato Mississippi, ora declinato in chiave rockista (la sferzante Mad, Bad & Dangerous) ora in chiave folk-blues (August Afternoon), ora raccontato attraverso pagine di pura ascendenza garage (Bend With The Wind e God Don't Never Change paiono sbucare dalla scuola di Junior Kimbrough o RL Burnside) ora affidato a commosse malinconie country-rock (la title-track). C'è spazio anche per un inchino a Lowell George (High Heel Sneakers deve molto ai Little Feat), il cui spirito, in santissima trinità di viventi e trapassati con Ry Cooder e Dr John, echeggia pure nelle note dell'occasionale, ancorché devastante, Live In Wredenhagen ('02), accreditato a Cary Hudson Electric Trio, cadeaux dal vivo per fans incalliti impreziosito da una grande versione della classica Jesus On The Mainline e dalla trascinante sfuriata hard-blues di una Black Dog mai così brutale.

Cool Breeze ('04) è, all'incirca, lo stesso disco, se possibile ancor più a fuoco, ancora più sentito ed emozionante. La sana sporcizia di un rock blues impregnato di fango ed elementi rurali continua a rivestire le scudisciate di Things Ain't What They Used To Be, lo swamp-rock alla Creedence della travolgente Jellyroll (con Jojo Hermann dei Widespread Panic all'organo) e le volute sinistre dell'inquietante Haunted House Blues; d'altro canto, la tenerezza folkie di Little Darlin', il country polveroso di Bay Street Blues e il roots'n'roll elegiaco della strepitosa Some Things Never Change dicono che la capacità del loro autore di colpire al cuore con poche e sicure pennate ha raggiunto un superbo grado di maturazione. Nel 2006, dopo che Katrina si è abbattuto sulle coste del Mississippi uccidendo 238 persone e trasformando ben 82 contee in disastri naturali a cielo aperto, Hudson reagisce con uno dei suoi album più personali e sofferti. Bittersweet Blues, a sorpresa, si rivela anche il più criticato, probabilmente a causa di un'atmosfera crepuscolare e dimessa dalla quale è bandito il roots-rock sino ad allora immancabile nelle produzioni del nostro. Eppure si tratta per l'ennesima volta di un album da incorniciare, inevitabilmente coinvolgente - a patto di essere dell'umore giusto - nel folk nostalgico di Passing By e della ripresa della vecchia Epitaph, nel morbido pickin' country-blues dell'impeccabile Freight Train, nel folk-rock spumeggiante e resiliente di Just Stuff. Ad aprire le danze, a loro modo piene di speranza sebbene particolarmente dimesse (e non potrebbe essere altrimenti), c'è Snow In Mississippi, stupenda composizione per chitarra acustica e armonica che chi scrive non esita a definire come il pezzo più bello mai scritto dall'artista, una ballata folkie dove Hudson manifesta un'umanità e una felicità melodica degne del migliore John Prine raccontando di un'inverno visto con gli occhi di un bambino di dieci anni e sulle "cose belle che non durano mai / sempre troppo svelte, come le canzoni d'amore" (e l'ultima Love Can Find A Way, anch'essa acustica, è quasi altrettanto riuscita).

Piuttosto sorprendente è anche l'imprevisto ritorno dei Blue Mountain: l'etichetta, stavolta, è la Broadmoor Records fondata da Laurie e John Stirratt per pubblicare il discreto Arabella ('03) e i dischi degli Autumn Defense capitanati dal secondo, a restare invariati sono l'organico del terzetto e le canzoni. Omnibus ('08) è infatti un ripasso, giacché parlare di greatest-hits sarebbe forse eccessivo, dei brani più significativi della band, quattordici pezzi appositamente rivisitati e - parere personale - forse corretti in modo fin troppo sistematico, fino a far evaporare del tutto quella patina tra antico e moderno che li rendeva speciali. Per chi non le conoscesse, le varie Bloody 98, Blue Canoe, Mountain Girl o Hippy Hotel, nel loro caratteristico intercalare di country, blues e folk, potrebbero ancora costituire un'epifania di quelle folgoranti, mentre le tracce più rock (bene il selvaggio baccano rootsy di Sleepin' In My Shoes, meno bene una Generic America smussata d'ogni spigolo) appaino davvero troppo canoniche e risapute, nei suoni perlomeno, per non far rimpiangere i prototipi. Logico, a questo punto, che anche il successivo Midnight In Mississippi ('08) sembri frutto di un'interlocuzione non proprio riuscitissima tra le radici rock e blues della band e il tentativo di suonare accessibili anche presso un pubblico più vasto. Così, accanto a scelte piuttosto incomprensibili (d'accordo riprendere Pretty Please da Homegrown, ma perché farla uguale alla precedente versione?), emergono episodi abbastanza difficili da contestualizzare nel percorso dei Blue Mountain (70's Song cita apertamente la Jackie Blue degli Ozark Mountain Daredevils, e sia, ma su una citazione non si costruisce un pezzo) e diverse parentesi di stanchezza creativa (si ascolti Rainy Day, tanto gentile quanto evanescente), autorizzando il sospetto che l'album demarchi soprattutto un'altra fase di incertezza e provvisorietà. Nonostante questo, il fragore dei vecchi Blue Mountain è tutt'altro che sopito, e se nell'incredibile, rabbioso sconquasso elettrico della title-track e nella sguaiata cavalcata blues d'una Skinny Dipping sudicia come il più malfamato dei juke-joints torna ad esplodere in tutta la sua forza rockista, nel roots-rock elettroacustico di Emily Smiles (da qualche parte tra Dave Alvin e gli Smashing Pumpkins) e nel laid-back gradevolmente funky di Groove Me trova persino nuove aperture e suggestioni inedite.

Seems To Me ('11), invece, realizzato da Hudson ricorrendo al fundraising di Kickstarter.com, si riallaccia alla dimensione prettamente acustica di Bittersweet Blues percorrendo con determinazione ancora maggiore i sentieri blues di Mississippi John Hurt e Robert Johnson. Le registrazioni hanno luogo - cosa insolita per l'artista - in quel di Dallas, Texas, mentre ai cursori troviamo Stuart Sykes (White Stripes, Cat Power), generoso architetto di un album all'insegna di un'essenzialità capace di tramutarsi in puro magnetismo folkie. Hudson sembra ancor più sereno e rilassato del solito, al punto che in That Old Magnolia Magic affiorano di continuo il sorriso bonario e la saggezza anagrafica di Ramblin' Jack Elliott. Non servono altro che chitarra e voce per trovarci catapultati in uno scenario fatto di ricordi e immagini da dagherrotipo (Storyville), piccole e innocenti dolcezze della quotidianità (Almost 7 (For Anna)), rantoli country-blues (Skinnydipping), tramonti messicani (My Lady Of The Smile) e racconti di strada (Queen Of The Road), fino alla chiosa perfetta di The Shadow, cupo monologo spoken-word in grado di evocare l'austerità affranta dell'ultimo Townes Van Zandt.

Songwriter prolifico, Hudson si è recentemente affiliato a MusicReleaser.com per diffondere l'ultimo (e ottimo) Mississippi Moon, ennesima materializzazione dei volti, dei suoni e dei colori dello Stato della Magnolia (così viene definito il Mississippi) e opera il cui ascolto, una volta di più, porta a chiedersi com'è possibile che un artista talmente onesto e costante versi ancora in una condizione di relativa oscurità commerciale. "Dopo un anno di terapia", raccontava Larry Brown, "il mio psichiatra mi disse, Be', forse la vita non è per tutti". Un po' come i dischi di Cary Hudson: non per tutti, magari, ma, una volta assaporatane la bellezza, irrinunciabili.

 
:: Discografia (riepilogo)


THE HILLTOPS
Holler [cassette-only] (1990)   7
Big Black River (Black Dog, 1993)  7.5

BLUE MOUNTAIN

Blue Mountain (1993)  7
Dog Days (Roadrunner, 1995)  9
Homegrown (Roadrunner, 1997)  8
Tales Of A Traveler (Roadrunner 1999)   6,5
Roots (Glitterhouse, 2001)   8,5
Tonight It's Now Or Never [live, 2cd]   6
Omnibus (Blue Rose, 2008) 6.5
Midnight In Mississippi (Blue Rose, 2008)   6.5

CARY HUDSON

The Phoenix (Glitterhouse 2002)  7.5
Live In Wredenhagen [live] (2002)  7.5
Cool Breeze (Glitterhouse 2004) 8

Bittersweet Blues (Black Dog, 2006) 7
Seems To Me (2001) 7
Mississippi Moon (Cary Hudson, 2012) 7.5

LAURIE & JOHN
Arabella (Broadmoor, 2003) 7




Blue Mountain - Midnight in Mississippi at Music in the Hall filmed in Oxford, MS, July 2009



Cary Hudson & Friends - Cool Breeze da The Green Couch Sessions


<Credits>