La sua voce era come un violino
di Stradivari: uno dei più grandi strumenti mai creati
(Merle Haggard)
Nessuno come lui era capace di far sgorgare il dramma
fuori da una canzone country
(Colin Escott)
La più grande voce country di tutti i tempi? Nessun dubbio
al riguardo: George Jones. Chiedetelo a Johnny
Cash, a Willie Nelson, anche a Merle Haggard, che si è
aggiunto di recente al club, in un accorato epitaffio
sulle pagine di Rolling Stone. Se lo hanno detto loro
(e molti altri prima e dopo) un briciolo verità deve esserci
per forza. È proprio così: George Jones è stato la quintessenza
dello "stile" nella country music, sia come
interprete, sia come persona, in un tutt'uno che ha saputo
cogliere la desolazione, il dramma, le contraddizioni
di una working class americana bianca che si è specchiata
nella sua essenza di uomo di spettacolo sopra le righe
e al tempo stesso di fedele confessore delle pene d'animo.
Cuori spezzati e bottiglie vuote, luci al neon e bar di
quart'ordine, la pantomima del dolore amoroso, delle incomprensioni
e dei rimbrotti, del prendersi e del lasciarsi, sullo
sfondo di una vita americana votata all'etica del lavoro
(...e della sbronza). Nessuno è riuscito a mettere in
scena un autentico dramma di sentimenti e devastazione
quanto Jones nei suoi momenti più ispirati di una carriera
lunghissima e ricca di colpi di scena. C'è sempre stato
George Jones, fin da quando il country costruiva le fondamenta
del suo immenso business, e fa quasi specie pensare che
lo scorso 26 aprile, all'età di 81 anni, abbia lasciato
questa valle di lacrime (è il caso proprio di rispolverare
questa frase fatta per descrivere l'essenza del canto
di Jones) con una scia di riverenza che sfiora davvero
il mito.
Non esiste musicista americano, anche al di fuori del
mondo discografico strettamente legato a Nashville, che
non abbia ascoltato, assimilato, anche rifiutato suo malgrado
la figura di Jones: è un'icona in tutto e per tutto e
lo resterà sempre di più negli anni a venire quando si
comprenderà meglio il lascito artistico di una figura
che spesso si è confusa in una sola entità con l'istituzione
di Nashville. Non è stato forse il più irregolare e maledetto,
per quel ruolo Hank Williams non scende dal trono; non
è stato certo quello che ha rotto più barriere e che ha
saputo abbracciare nuovi pubblici, a cominciare da quello
rock'n'roll, come è avvenuto per Johnny Cash; in un certo
senso George Jones ha raffigurato l'estabilishment country
per eccellenza, eppure in quanto a definizione di stile
e canoni assoluti del genere, recupero e mantenimento
della tradizione, creazione di un preciso immaginario
"white trash" americano, è lui il punto di riferimento
tanto di molti artisti mainstream quanto di una miriade
di rinnegati e fuorilegge.
Texano cresciuto nella depressione degli anni 30 fra Saratoga
e Beumont, Jones si è sempre portato appresso il duro
marchio di quella povertà che doveva essere dimenticata,
meglio ancora schiacciata dagli eccessi: alcolista come
lo fu il padre fino al parossismo, votato alle intemperanze
nella vita e sul palco, sposato quattro volte e infintamente
straziato nel suo rapporto con le donne, la sua carriera
è stata costellata di trionfi discografici e altrettanti
fallimenti umani. "The Possum", come tutti in maniera
ironica cominciarono a chiamarlo (dalla forma particolare,
quasi buffa, del suo viso), passerà anche alla storia
per gli innumerevoli show cancellati all'ultimo minuto
(No-Show Jones la definizione che il business musicale
gli appioppa immediatamente) e per quelli viceversa condotti
fino in fondo nonostante fosse ubriaco fradicio. D'altronde
la mancanza di mistero intorno alle sue dipendenze (nel
processo di auto-distruzione arriverà anche, dalla fine
degli anni 60, un "amore" incondizionato per la cocaina,
da cui si libererà con l'aiuto dell'ultima moglie, Nancy
Sepulvado) ha fatto parte della leggenda del personaggio.
Come non sorridere amaramente di quest'uomo, quando si
viene a sapere che per un paio di volte le sventurate
mogli di turno dovranno recuperarlo da qualche scorribanda
notturna lungo i bar del Texas…all'inseguimento di un
trattorino tosaerba! Nonostante le suddette si fossero
infatti premunite di nascondere tutte le chiavi delle
auto a disposizione nei garage, il nostro George, assetato
di un buon whisky, aveva pensato bene di montare sul trattore
in questione e farsi due ore di statale a passo d'uomo
soltanto per approdare al prossimo drink. Sono questi
ed altri episodi che lo hanno reso un personaggio fuori
dagli schemi, chiacchierato, ai limiti di una caricatura
eppure vivo e non fintamente ribelle nell'immaginario
collettivo, anche se restano evidentemente le migliaia
di incisioni a testimoniare la sua presenza ingombrante,
gigantesca lungo cinquat'anni di country music.
Il suo linguaggio ha infatti cambiato
pelle, pur restando quasi unidimensionale e inconfondibile,
caratteristica solo dei grandi artisti: il comune denominatore
quella voce, quel modo a volte persino manieristico e
ciò nonostante inimitabile di estenderla verso le vette
del romanticismo più dolciastro o per contro lungo gli
abissi dello sconforto più nero. Districarsi in questo
mare di canzoni, dischi e sessioni è quasi compito improbo:
una ragnatela confusa di cambi di etichetta, produttori,
musicisti, quando non di vere e proprie giravolte di forma,
affrontando anche linguaggi musicali che sono passati
dal country al pop, dalla tradizione alla modernità. In
un certo qual modo, con tutti i distinguo storici possibili
e i diversi destini personali, George Jones ha
saputo incaranare nel mondo del country l'eclettismo e
persino la confusione che appartennero poi a Elvis Presley:
una capacità innata, un talento naturale per piegarsi
ad ogni canzone e spesso anche la fragilità di non sapere
arginare le scelte dei produttori di turno, accettando
di incidere qualsiasi cosa, eppure conservando anche nelle
selezioni più improbabili, anche nel materiale più goffo,
un'organica, impareggiabile presenza di carattere.
È possibile tuttavia tracciare un percorso coerente proprio
a partire dalle singole canzoni, che hanno testimoniato
i diversi decenni di carriera di George Jones e i suoi
cambi di umore. A cominciare fin dagli inizi sia chiaro,
perché se dovessimo individuare un percorso artistico
di qualità, dovremmo allora sentenziare che dal 1954,
anno della prima incisione per la locale label texana
Starday, fino quanto meno alla prima metà degli
anni 80, Jones ha attraversato quattro decenni di incontrastato
estro musicale. Gli esordi, come anticipato, per la Starday
di Jack Starnes, ex manager di Lefty Frizell (la più grande
star country dei 50s dopo Hank Williams) e Harold 'Pappy'
Daily, che intravedono in Jones un talento naturale
in grado di riproporre lo stile e le movenze dei migliori
artisti sulla piazza in quel momento. Qualche indecisione
iniziale, ma poi Jones prende confidenza, affina il suo
stile personale e non tende più semplicemente ad imitare
i suoi eroi (su tutti Hank Williams, che negli anni tornerà
ad omaggiare più volte): l'anima dei primi singoli è quella
di un honky tonk genuino, frizzante, dominato da pedal
steel e chitarre che spesso sconfinano verso il nascente
movimento rockabilly.
Ci sarà infatti un tentativo di vendere George Jones come
una sorta di nuovo ribelle del rock'n'roll (alcuni singoli
a nome Thumper Jones), ma i primi show radiofonici al
seguito di un giovanissimo Elvis Presley e degli astri
country Webb Pierce e Faron Young (memorabili le risse
con quest'ultimo, pare per incompatibilità di carattere...)
faranno intendere come la storia e l'educazione musicale
di The Possum sia inseparabilmente intrecciata con la
terra texana, la tradizione del sud, l'america bianca
e dura dell'honky tonk più verace. Le antenne dell'industria
country si drizzano grazie ai successi regionali di Why
Baby Why, Just One More e I'm
Ragged but I'm Right, sancendo in seguito il
passaggio della Starday sotto il controllo della Mercury
di Nashville e di conseguenza cambiando la prospettiva
dei suoi artisti.
Jones entra così nel cartellone della Grand Ole Opry e
viaggia in tour di dimensione nazionale, portandosi subito
appresso il marchio di musicista pericoloso e di testa
calda: si racconta che i 2500 dollari guadagnati per una
data nel West Texas siano finiti letteralmente giù per
il cesso nel corso di un party notturno un po' agitato
dai fumi dell'alcol. Follie o meno dell'uomo, i successi
di White Lightning,
Who Shot Sam e della
ballata Tender Years
renderanno il suo nome una stella di prima grandezza del
country dell'epoca, creando un corpo di registrazioni
ancora oggi essenziale nel definire il vocabilario del
suono honky tonk. Per molti resterà questo il momento
più fecondo della sua vita artistica, cancellando però
un seguito che ha invece espresso altrettanto fascino:
trascinato infatti da Pappy Daily alla corte della United,
di cui quest'ultimo era diventato manager, Jones apre
una brevissima e convulsa fase di hit e brani dimenticati,
che durerà lo spazio di soli tre anni, tuttavia affollati
di materiale eterogeneo e spesso avvincente che ingloba
honky tonk, bluegrass, old time, western song, folk, singoli
natalizi e i primi famosi duetti per cui diverrà un consumato
specialista (in questi anni con Melba Montgomery).
Tutto si potrebbe nondimeno condensare attraverso alcuni
brani chiave della sua intera storia quali She
Thinks I Still Care e The
Race is On, divenuti veri e propri standard
della country music nell'immaginario popolare del tempo.
Il legame con Daily e con il talent scount discografico
Art Talmadge proseguirà a questo punto nell'avventura
alla Musicor, etichetta creata dal manager di Gene
Pitney alla quale Jones offrirà una serie di registrazioni
storicamente meno note fra il 1965 e il 1971, prima di
riesplodere in una nuova, essenziale fase della sua carriera.
Anni comunque prolifici e ingiustamente dimenticati quelli
della seconda metà dei sixties per la Musicor (definiti
appunto The Great Lost Hits in una esaustica raccolta
di recente pubblicazione), da cui sbucheranno una quindicina
di singoli piazzati nella top ten e un indiscusso ruolo
di intoccabile monumento del country made in Nashville
(ricordiamo soprattutto Walk
Through this World with Me, Love Bug
e A Good Year for the Roses),
anche in un periodo in cui questa musica sta perdendo
i suoi tratti più aspri, sudisti e regionali in favore
di una dimensione genericamente pop. Lo stile si fa spesso
più affettato, la drammatricità della voce aumenta e in
qualche modo anticipa la maturazione del decennio successivo,
lasciando per strada gli accenti più sanguigni e tradizionalisti
degli esordi per una forma di ballata country che esplorerà
invece le tensioni più tragiche dell'animo.
Questo cambiamento è anche, forse
soprattutto, il riflesso di una vita personale alla deriva:
un matrimonio fallito con la seconda moglie Shirley Ann
Corley (dalla quale aveva avuto i primi due figli) e la
tensione crescente, per continue divergenze artistiche,
con Pappy Daily (fino alla inevitabile rottura, testimoniata
da una storica lettera di ripicca scritta da quest'ultimo)
porteranno con sé l'acuirsi delle dipendenze di Jones,
il cambio di residenza a Nashville e il nuovo amore con
Tammy Wynette. Artista country di punta del 1968
con l'epocale Stand by Your Man, quest'ultima sposerà
George l'anno successivo, aprendo anche una stagione di
fortunati duetti musicali entrati nella iconografia del
country di quegli anni. Rincorrendo l'amata Tammy anche
sul piano contrattuale, Jones infine appone la sua storica
firma per la Epic nel 1971, non senza un lungo
strascico di battaglie legali con la Musicor e una coda
di rimbrotti reciproci che produranno materiale discografico
un po' confuso.
Risolti questi problemi, è esattamente alla Epic che Jones
conosce il produttore e pigmalione Bill Sherrill,
già artefice dei successi della stessa Wynette e di un
rinato Charlie Rich. Sherrill è infatti l'indiscusso architetto
del cosiddetto suono countrypolitan dopo Chet Atkins,
lo stesso che dominerà tutte le più importanti pubblicazioni
country nashvilliane nel corso degli anni 70, spesso in
contrapposizione con il nascente movimento degli Outlaw
texani (Waylon Jennings, Willie Nelson, guarda caso però
tutti ammiratori incalliti di Jones). Se l'essenza di
questo sound farà storcere il naso ai puristi, ai conservatori
della tradizione, agli amanti del country rock (pur riprendendo
in parte anche le scelte sonore di questo stile, in una
contrapposizione non così netta come la si è spesso dipinta)
è altrettanto vero che quella sorta di elegante, drammatico
e personale "wall of sound" creato da Sherrill nelle sue
registrazioni, spesso utilizzando stilemi pop e lussuosi
tappeti d'archi, rimesso nelle giuste mani di Jones (e
soprattutto nelle qualità inctedibili della sua voce)
produrrà autentiche gemme in grado di non snaturare il
talento di quest'ultimo e allo stesso tempo di fargli
compiere un passo avanti, oltre la pura custodia museale
di un genere che invece aveva disperato bisogno di rigenerarsi.
Modificata anche l'immagine personale (via i brillanti
ed eccentrici completi, conosciuti come 'Nudie Suits',
via il taglio di capelli a spazzola), comunicando una
figura più matura e introversa, in questo periodo acquisiranno
importanza non solo i singoli successi (a cominciare dall'inaugurale
We Can
Make It del 1972), ancora di capitale
importanza nell'universo country rispetto al formato 33
giri impostosi nel rock, ma per l'appunto anche una serie
di album che stabiliscono per l'ennesuma volta la centralità
di George Jones nell'indicare regole e stile del genere,
dallo splendido, intenso, accorato A Picture of Me
(Without You) al fortunato e riassuntivo The
Grand Tour (che regala a Jones la sua hit numero
uno dal 1967). Sono dischi in cui viene descritto per
filo e per segno l'apice e quindi il lento disgregarsi
di un rapporto di coppia, quello con Tammy Wynette, fino
all'inevitabile divorzio nel 1973 (i due però continueranno
la collaborazione artistica anche da separati). George
Jones continuerà a rievocare anche negli anni successivi
una sorta di seduta psichiatrica personale di questo amore
difficile (il più delle volte naturalmente per cause imputabili
solo e soltanto alle sue sregolatezze), sublimato da titoli
come Alone Again, The Battle, Memories
of Us, pur non raggiungendo più la brillantezza delle
prime incisioni con Sherrill. Una offuscata presenza quella
di Jones, provocata principalmente dalla citata dipendenza
da cocaina e da un conseguente atteggiamento distruttivo
che implica una valanga di concerti annullati e persino
rischiosi flirt con le armi.
Tutto ciò ovviamente fino all'ennesima rinascita, forse
l'ultima davvero significativa da un punto di vista artistico
e commerciale, sempre in coppia con il produttore Bil
Sherrill: siamo giunti ormai all'alba degli anni 80, quaranta
primavere ininiterrotte di carriera, con il fortunatissimo
singolo He Stopped Loving Her
Today e l'album I Am What I Am,
dichiarazione di accettazione e saggezza sfacciata, non
necessariamente il più importante della sua vita, ma di
sicuro uno dei più travolgenti per numero di vendite e
persino per capacità di incidere sul tessuto della country
music del tempo, aprendo di fatto la strada al "nuovo
tradizionalismo" che andrà ad imporsi dentro e fuori Nashville
(da Dwight Yoakam a Marty Stuart i discepoli saranno innumerevoli).
Il che ha del miracoloso per un'artista che ha sorpassato
la cinquantina e si vede all'epoca affiancato, meglio
assediato e poi "superato" da giovani talenti che ne hanno
assimilato o addirittura imitato lo stile.
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