per
Bap Kennedy (17 giugno 1962 – 1 novembre 2016)
Un'anima divisa
fra il lirismo ferito della sua Belfast e l'amore per l'America di Hank Williams
(a cui dedicherà un adorabile tributo, dal geniale titolo di Hillbilly Shaklespeare),
Bap Kennedy ha tenuto insieme due tradizioni e due sentieri musicali spesso
convergenti. L'unione fra country d'autore e celtic soul in lui aveva il respiro
di altri grandi protagonisti, che hanno guardato oltreoceano per agguantare la
propria ispirazione. Non è un caso che in carriera il piccolo Bap abbia avuto
la fortuna e la tenacia di incontrare sul suo cammino sia Van Morrison (che partecipò
alle registrazioni di The Big Picture, album del 2005), sia Mark Knopfler
(produttore del più recente The
Sailor's Revenge, forse il vertice personale dell'artista), come
lui europei (e isolani) innamorati di una mitologia americana, imbevuti di quelle
memorie musicali, ma anche fieri portavoce del canto della propria terra.
Senza
le stesse visioni e le vette artistiche dell'irlandese Van, senza le qualità tecniche
dello scozzese Mark, Bap Kennedy ha costruito il suo ruolo di ambasciatore "minore",
eppure essenziale, dell'attrazione fatale di cui sopra. Lo ha fatto attraverso
una costante maturazione in qualità di autore, caratteristica che già emergeva
nella sua prima importante avventura artistica, alla guida degli Energy Orchard,
e che conobbe la sua rivelazione nell'incontro con Steve Earle in territorio
di Nashville. Era la metà degli anni novanta, i due si erano incrociati ripetutamente
nel corso delle precedenti stagioni: nei tour europei di Earle e nelle sortite
americane degli stessi Energy Orchard, che divennero presto testimoni di un rock
proletario dagli aromi soul e folk. Carriera fulminea e poco lodata la loro, anche
se supportata da un contratto importante con la MCA, finita in una manciata di
dischi e almeno un piccolo classico chiamato "Shinola". Earle viveva
in quegli anni la sua discesa agli inferi, ma anche la sua lenta e vittoriosa
risalita: da sempre invaghito dello spirito rock'n'roll che serpeggiava nelle
band irlandesi (basti ricordare la sua collaborazione con i Pogues per Johnny
Comes Lately), si annotò il nome di quel giovane songwriter alla guida
degli Energy Orchard e quando ebbe bisogno di infoltire la scuderia della sua
neonata E-Squared - etichetta indipendente che fondò nel '95, di ritorno
dal castigo del carcere e della droga, con l'amico produttore Ray Kennedy - chiamò
il buon Bap, invitandolo a saltare sul primo aereo per il Tennessee.
In
questo clima di reciproca stima artistica e nella totale fiducia di Kennedy per
il suo nuovo pigmalione americano, prende forma l'esordio solista di Bap, Domestic
Blues. È senz'altro il suo disco più "yankee" nei colori e negli accenti,
ma mai strappato dalle profonde radici irish. È anche quello che gode di una maggiore
esposizione internazionale e che gli apre la possibilità di investire in un nuovo
pubblico. Ciò che conta tuttavia è soprattutto il frutto di un bagalio
di canzoni che Bap si porta appresso dopo la dolorosa chiusura dei sogni di gloria
cullati insieme agli Energy Orchard. Nonostante una discreta accoglienza della
stampa americana, che si accorge della scrittura romantica e accorata di Bap,
e un lusinghiero comportamento nelle classifiche di vendita, anche grazie al nascente
interesse per il mondo del cosiddetto "alternative country", a suo tempo
Domestic Blues soffre un po' in sordina davanti ad altre rivelazioni di stagione,
nonchè a causa della zoppicante promozione della stessa E-Squared. Avrebbe
invece meritato ben altra esposizione, tracciando infine la direzione futura dell'intera
carriera di Bap, nei suoni come nelle tematiche.
Avrebbe meritato non
tanto o non solo per la produzione di Steve Earle, o per la serie di illustri
ospiti rastrellati nella crema musicale di Nashville (la voce Nancy Griffith,
il mandolino di Peter Rowan e il dobro di Jerry Douglas), quanto per la cristallina
bellezza del suo country rurale e l'ingenua grazia delle liriche. Un'insolita
scoperta (poi confermata dai successivi Hillbily Shakespeare e Lonely
Street), perchè proveniva dalla voce solista degli Energy Orchard e da una
specie di "espatriato" per natura, un musicista che sembrava restituire un sensibilità
diversa a quelle radici musicali. Il primo vagito di Bap Kennedy conquista
senza fare chiasso, con l'equilibrio della semplicità: dalla vivace apertura di
Long Time Comin' alla tenerezza acustica e
pigra di The Way I Love Her, Mostly Water
e I've Fallen in Love, dal rotondo country-blues della title track fino
ai colori della terra natia riflessi in The Ghost of
Belfast (con tanto di tin whistles) e nella conclusiva The Shankill
and The Falls, è una raccolta di docili ballate dal cuore acustico, sulla
falsariga del capolavoro inciso da Steve Earle pochi anni prima, Train a Comin'
- e guarda caso quest'ultimo donerà a Bap la sua Angel
is the Devil, unica cover presente - canzoni abbellite da una strumentazione
che sa di antico, di portici e country blues all'imbrunire, tra mandolini, dobro,
lap steel, violini, e una band di tutto rispetto, che sa come toccare le corde
giuste del sentimento, mischiando sapori d'Irlanda e hillbilly invecchiato in
botti di rovere.
Se proprio si vuole muovere un appunto al debuttante
Bap Kennedy di Domestic Blues, è forse l'eccessiva dipendenza dal
suo mentore Steve Earle, che in ogni caso spende sempre generose parole di incoraggiamento
per l'irlandese gentile di Belfast. Domestic blues finisce così per presentarsi
all'appuntamento con la storia come un album completamente avverso alle mode del
momento, lontano persino dal gesto elettrico del contamporaneo e più appetibile
suono "No Depression" o roots rock che dir si voglia. Sprigiona però
una propria poetica, quasi dimessa, che poggia sul gesto cordiale, domestico per
l'appunto, e volutamente retrò delle melodie, che preferisce cantare in sottovoce,
svelando così il carattere stesso di Bap Kennedy. Un gentiluomo di Belfast.