Prima
di elevarsi al ruolo di vero e proprio "reinessance man", come direbbero
gli americani, dell'intero movimento Americana, sorta di profeta,
anticipatore e divulgatore della grande eredità della roots music,
Buddy Miller ha affrontato un lunghissimo apprendistato,
una maturazione che le stesse note biografiche, contenute nel suo
sito ufficiale, solennemente accostano ad un Paul Cézanne, giunto
a piena sbocciatura nella seconda età della vita. Tolti di mezzo
confronti impropri, la saggezza del musicista e dell'autore si è
certamente mostrata in tutta la sua esperienza soltanto a partire
dai primi anni '90, allor quando Buddy Miller fa i bagagli dalla
scena folk newyorkese, in cui per diverse stagioni aveva tentato
di sgomitare, trovando nell'altra Nashville, quella dei "nuovi tradizionalisti"
e di un risorgimento country all'insegna della passione e della
fedeltà alle radici, un'oasi in cui esprimere tutto il suo talento.
Uomo del Midwest, nativo dell'Ohio e per diverse stagioni impegnato
nel sottobosco della cultura bluegrass e old time, Miller cresce
artisticamente sulla strada, sin dall'alba degli anni Settanta.
Il periodo è fertile per addensare intorno al suo songwriting la
lezione del primo country rock, in una stagione fatta di incroci
prima impensabili: da Hank Williams ai Byrds fino a Gram Parsons,
da Emmylou Harris ai troubadour texani, il solco è tracciato e la
Buddy Miller Band veleggia in un grande mare dove la tradizione
assume nuovi insospettabili significati. Questa splendida confusione
è tuttavia anche un freno alle qualità del musicista, che non sembra
in grado di uscire dalle retrovie per troppo tempo.
Sarà la conoscenza artistica e quindi il legame affettivo con Julie
Griffin (poi divenuta semplicemente la signora Miller)
a far compiere un primo timido balzo alle ambizioni di Buddy: i
due si posano nel 1981 e per tutto il decennio operano in sordina
con piccole etichette, attraverso demo casalinghe, persino un contatto
con il leggendario Sam Phillips (Sun records), prima di approdare
al debutto ufficiale Meet Julie Miller del 1990. In questo
frangente Buddy appare ancora nascosto, timoroso di esporsi in prima
persona: lo spazio della ribalta è tutto per Julie e il suo nome
viene speso sulle copertine dei dischi, con una carriera promettente
che prende il via da alcune labels di ispirazione cristiana (una
particolare fetta di mercato sempre in vista negli States) per arrivare
all'intellighenzia della Nashville country più progressista, così
come nella stessa Austin (terra di origine di Julie Miller), crocevia
di una roots music che nella prima metà degli anni Novanta sta coalizzandosi
intorno a nuove spinte artistiche. Dentro questo mondo Buddy Miller
si adatta e trova il suo spazio: sorgono in questo periodo le numerose
collaborazioni con Shawn Colvin (già corista in una vecchia incarnazione
della Buddy Miller Band), Victoria Williams, Jim Lauderdale e Gurf
Morlix, autori questi ultimi che da tempo stanno scavando un solco
per una diversa visione della tradizione country, musicisti e produttori
che annunciano l'Americana a venire. Buddy si inserisce nel gruppo:
da una parte diventa a tempo pieno un apprezzato songwriter per
conto terzi (le sue canzoni cominceranno a circolare nelle interpretazioni
di Heather Myles, Lee Ann Womack, Brooks & Dunn), ingranaggio del
Music Row nashvilliano dove la creazione di hit è continua e le
regole del business musicale feree, dall'altra cominciando a coltivare
la carriera solista.
Scavalcati abbondantemente i 40 anni, infatti, Buddy Miller dedicherà
seriamente tempo alle sue intenzioni artistiche: Your Love and
Other Lies lo impone alle attenzioni del settore country e roots
rock nel 1995, seguito a ruota dalla piena fioritura di Poison
Love e Cruel Moon, coppia di album che sostanzialmente
definiscono la figura del musicista come il nuovo messaggero del
tradizionalismo a cavallo fra canzone d'autore, radici sudiste e
cosiddetto alternative country. La conferma e il riconoscimento
unanime arrivano in questi anni grazie alla presenza in pianta stabile
di Buddy nelle tour band di Emmylou Harris e Steve Earle:
le qualità strumentali del chitarrista sono indiscutibili, uno stile
limpido e riconoscibile che riesce a mantenersi in equilibrio fra
un tocco molto rurale e acustico - derivante dalla sua educazione
all'old time music - e uno più aggressivo che non disdegna fendenti
di scuola rock blues e country rock texana.
La rivista No Depression, piccola Bibbia del settore, lo definirà
successivamente "artista del decennio", esaltando proprio queste
capacità camaleontiche, le stesse che lo portano a ricoprire più
ruoli: songwriter, partner artistico con la moglie Julie (scorrerà
in parallelo la carriera di quest'ultima da solista e quella della
stessa coppia), talent scout (darà una spinta a nuove stelle come
Kasey Chambers e Miranda Lambert) e produttore (affiancherà tra
gli altri Patty Griffin, Lucinda Williams, Jimmie Dale Gilmore,
Gillian Welch), turnista di valore. Nel decennio successivo arriva
finalmente a compimento la consacrazione, sia attraverso la pubblicazione
di alcuni dei suoi lavori più rappresentatitivi (a cominciare dal
capolavoro dagli influssi gospel & soul Universal United House
of Prayer, insignito dell'Album of the Year Award agli Americana
Music Awards del 2005), sia attraverso la contemporanea e fortunata
formula del duo Buddy & Julie Miller (un omonimo esordio
nel 2001 e il più recente e celebrato Written in Chalk).
Non bastasse la mera cronaca della carriera personale, si aggiungeranno
anche le prestigiose collaborazioni avviate con l'icona del r&b
Solomon Burke (Buddy cura la produzione di Nashville, disco a tema
sudista e country soul del 2006), e ancora con John Fogerty, Alison
Krauss e Robert Plant nel loro decorato Raising Sand e successivamente
nella battezzata Band of Joy, sempre al fianco del citato
Plant.
L'esito di queste presenze e di mille altre partecipazioni porterà
al secondo prestigioso premio quale "Instrumentalist Of The Year"
nel 2008, chiudendo il cerchio su un artista davvero completo. Purtroppo
questo intenso lavoro sembra chiedere il conto al musicistanel corso
della tournè organizzata insieme a Emmylou Harris, Patty Griffin
e Shawn Colvin l'anno seguente: in febbraio, dopo lo show di Baltimora,
un grave attacco cardiaco costringe Buddy al ricovero e all'impianto
di un triplo bypass, per fortuna risolto con una efficace riabilitazione
e il ritorno repentino sulle scene. Un nuovo album - The Majestic
Silver Strings - infarcito di stellari presenze artistiche (lo
affiancano le chitarre di Marc Ribot, Greg Leisz e Bill Frisell)
annuncia una sorta di riconoscimento internazionale, seppure più
importante a livello simbolico che non nei risultati, spesso troppo
pretenziosi. Alla soglia dei sessant'anni tuttavia Buddy Miller
continua a ribadire un ruolo centrale, per il pubblico e gli stessi
colleghi, nella costruzione e conservazione di un patrimonio musicale
immenso e apparentemente inesauribile.
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Cruel Moon [Hightone, 1999]
Ideale
compimento e apice di una trilogia discografica, Cruel Moon è il
terzo lavoro in casa Hightone che prende per le corna la tradizione country rock
ridandole slancio e sapore, mantenendosi fedele ad un approccio elettricoe rurale
al tempo stesso. Non è un caso se il disco finirà in cima alle preferenze della
grande tribù "No Depression" - la rivista, i siti e il pubblico che si tsanno
formando intorno alla rinascenza del rock delle radici - nel momento di eleggere
il disco del '99. Squadra fortunata non si cambia e Buddy Miller si guarda
bene dal rinunciare alle collaborazioni che hanno fatto la fortuna dei due precedenti
album, sfruttando però una maturità di autore e interprete che trasforma immediatamente
Cruel Moon in uno dei piccoli grandi classici dell'Americana di fine decennio:
impossibile non cosiderare questa manciata di brani una sorta di guida, di vocabolario
su cui ogni nuovo songwriter di area tradizionale dovrà prendere appunti. Ai soliti
gregari Phil Madeira, Byron House, Tammy Rogers a Al Perkins si affiancano gli
amici di sempre: Steve Earle risponde nuovamente all'appello nella spassosa
Love Match e dona persino una sua composzione,
I'm Not getting Any Better at Goodbye; Emmylou Harris lascia un cameo
vocale nella title track, Jim lauderdale torna a scrivere con l'amico Miller e
presenzia in I'm Too Used to Loving You. Il
resto è saldamente nella mani della moglie Julie, che ancora nascosta dietro le
quinte scrive, duetta e sostiene il compagno di vita e di arte al meglio delle
proprie capacità. La differenza di qualità del materiale si fa sentire, candidando
immediatamente Cruel Moon a primo raggiunto capolavoro della loro carriera: il
fuoco hillbilly di Does My Ring Burn Your Finger,
la dolcezza infinita della stessa Cruel Moon
e di In Memory of My heart, la trascinante
danza ritmica di Somewhere Trouble Don't Go,
le effusioni soul di Sometimes I Cry formano
un'eredità importante, un songbook dove attingere per le nuove generazioni Americana.
Buddy & Julie Miller [Hightone, 2001]
Strano
a dirsi, ma dopo anni di intensa collaborazione artistica, l'omonimo disco del
2001 per la Hightone sancisce il primo ufficiale debutto discografico della coppia.
Un disco da un punto di vista stilistico semplicemente perfetto: l'intesa fra
Buddy e Julie Miller era già stata ampiamente dimostrata nelle rispettive
singole uscite, ma nel continuo gioco di rimandi e nello scambio più intenso delle
voci, che si alternano nel ruolo solista, risiede la novità. L'unione fa la forza,
proprio così, banale constatazione che in Buddy & Julie Miller mostra
esattamente i risultati che ci si aspetterebbe da loro. Undici episodi di scintillante
folk-rock con le dovute incursioni nei territori della tradizione country, della
ballata rurale e con qualche irrefrenabile voglia rock'n'roll, che la chitarra
di Buddy sa come rendere al meglio. Sul versante del songwriting padroneggia naturalmente
Julie, mentre il buon maritino si astiene dalla scrittura ma infila perle chitarristiche
che giustificano la sua elezione a sessionist tra i più richiesti del periodo
in camo Americana. il suo stile segna indelebilmente le melodie sfavillanti di
alcune ballate e di quei pochi, intensi colpi rock-blues. Tra questi ultimi You
Make my Heart Beat too Fast e gli eccitanti sapori swamp sudisti di
Dirty Water (qui il lavoro alla chitarra
è da applausi). Gli intrecci vocali, mutuati da un'espressione che media fra tradizioni
country, old time e gospel, restano la vera carta vincente della raccolta: lo
si intuisce chiaramente ascoltando il climax raggiunto nelle interpretazioni di
Keep Your Distance (Richard Thompson), nella
struggente rilettura di Rock Salt and Nails
o dell'indimenticabile Wallflower a firma
Bob Dylan. Prodotto sapientemente dagli stessi coniugi Miller ed avvalorato dalla
presenza di alcune collaborazioni di peso (l'onnipresente Emmylou Harris, Gary
Tallent), Buddy & Julie Miller si lascia amare da tutti coloro che hanno ben inteso
il senso proprio del concetto "Americana": una sintesi magica di radici e rock,
di suoni semplici eppure centellinati nel minimo dettaglio con grande dedizione,
che possono generare piccoli gioielli quali That's Just
How She Cries.
Written in Chalk [New West, 2009]
Il
secondo episodio ufficiale della coppia compare soltanto a fine decennio, segno
che Buddy e Julie Miller si preoccupano soprattutto della qualità del loro messaggio
musicale, senza sfruttare all'eccesso una pur evidente posizione di prestigio
acquisita. È chiaro comunque che Written in Chalk sia il frutto
finale di un lungo percorso di conquista: la presenza nell'album di ospiti e relativi
duetti e collaborazioni sancisce questo passaggio, anche rischiando di farlo apparire
un'opera più costruita. In parte risulta certamente meno spontanea e naif dell'omonimo
lavoro del 2001, ma è innegabile che la produzione dello stesso Buddy Miller,
la densità dei brani e di sonorità che lambiscono canzone d'autore, tradizione
old time e persino velleità jazzy, riflettono una raggiunta maturità della coppia
artistica. Racchiuso in una bellissima confezione cartonata dal sapore bibliofilo,
Written in Chalk costruisce una serie di capitoli e resoconti sulle pene d'amore,
in cui Julie Miller trova lo sfogo per la sua scrittura romantica, a tratti disperata,
ma mai arresa alla banalità dell'argomento. Gli accesi toni southern country di
Ellis County e il country blues fangoso di
Gasoline and Matches sembrano agganciarsi
ad un clima familiare, portando a compimento lo stile del duo, ma la rarefattta
ballad pianistica Don't Say Goodbye lancia
il segnale di un disco più ambizioso. Proprio Julie Miller pare essere
il polo di questa parziale svolta, nel segno dell'eleganza: Long
Time è quasi un richiamo alla Rickie Lee Jones delle notti al Tropicana,
mentre Every Time We Say Goodbye vive dei
sussurri del suo canto. Una scelta che in parte rende troppo "sofisticata" la
musica dei coniugi, spesso apprezzabile invece per il carattere a volte brusco
e appassionato con cui affronta la tradizione. Qui si riflettono alcuni sprazzi
di pura goduria hillbilly in What You Gonna Do Leroy
di Mel Tillis (duetto di Buddy con Robert Plant, prima di formare
insieme il progetto Band of Joy), nel country soul di One
Part, Two Part con la partecipazione delle McCrary Sisters o ancora
fra le trame blues paludose di Memphis Jane.
Il set di Buddy & Julie Miller però è leggermente modificato e il loro vero sentire
appare oggi riassunto da riletture quasi signorili come The
Selfishness in Man (brano del grande Leon Payne, l'autore di Lost Highway),
episodio che chiude il disco chiamando a raccolta l'amica inseparabile Emmylou
Harris.
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Your Love and
Other Lies [Hightone, 1995]
L'esordio
solista di Buddy Miller avviene all'insegna di una rinnovato tradizionalismo,
che guarda caso riccolega Your Love and Other Lies, per suoni e
concezione, alla stagione vissuta a Nashville una decina di anni prima sotto la
guida di Steve Earle, Dwight Yoakam e Lyle Lovett. Alle registrazioni partepano
peraltro personaggi chiave quali Al Perkins, Phil Madeira, Don Heffington e Byron
House, attivi protagonisti di questo rinascimento. Una produzione casalinga, che
inaugura una sequenza di lavori concepiti nelllo studio parsonale di Miller, non
penalizza affatto le qualità del musicista, ma soprattutto di quello che sembra
essere una sorta di filologo della country music. In tutto il disco si respira
infatti un'atmosfera di recupero e valorizzazione delle sonorità più classiche
del genere, facendo riferimento ad honky tonk, cosiddetto Bakersfield sound (Buck
Owens, Merle Haggard), country rock d'annata, amplificato dalla chitarra twangy
dello stesso Buddy Miller e da un ottima valorizzazione delle parti vocali, sia
con la moglie Julie (anche co-autrice di diversi episodi), sia con le diverse
voci femminili chiamate a raccolta (Emmylou Harris e Lucinda Williams). Un battesimo
che convince a pieni voti, pur mantenendosi dentro i canoni della tradizione fin
con troppa osservanza, lasciando aperte diverse soluzioni sul futuro. Qui Miller
sembra in qualche modo sentirsi rassicurato dalle presenze di You're
Running Wild (Louvin Brothers) e di una affettuosa versione del classico
di Tom T hall, That's How I Got to Memphis,
ricorrendo infine all'aiuto di Jim Lauderdale per Hold
on My Love e Hole in My Head. Non
una questione di insicurezza, ma probabilmente l'esigenza di essere circondato
da amici che hanno compiuto un percorso artistico comune. La capacità di evocare
paesaggi sudisti, spostandosi spesso da romantiche ballate (Through
the Eyes of a BrokenHeart, Watching Amy Dance)
verso guizzi di pura hillbilly music (Don't Listen to
the Wind, con il violino di Tammy Rogers) e iniezioni di swamp blues
(I Can't Slow Down) suscitano l'interesse
del mondo discografico e di numerosi colleghi. L'etichetta che dà fiducia
a Miller è la piccola agguerrita Hightone, da qualche tempo in prima fila nella
costruzione di un country "alternativo" al circuito delle major. Una scelta che
verrà premiata sulla distanza.
Poison Love [Hightone, 1993]
A
tutti gli effetti un proseguimento dell'esordio, Poison Love stabilisce
definitivamente il ruolo di Buddy Miller tra i capofila di una rinascita del suono
country più classico, smussando le ingenuità e amplificando le doti di ricercatore
presenti in Your Love and Other Lies. Una apertura quale Nothing
Can Stop Me, vecchio hit a firma George Jones e Roger Miller, è sintomatica
del percorso e della direzione in cui si muove l'intero lavoro di Miller, qui
benedetto dalle partecipazioni di Gurf Morlix, Jim Lauderdale, Sam Bush, Al Perkins,
Byron House a altri maestri dell'altra Nashville. Profondo conoscitore del linguaggio
honky tonk, lo adatta alla sua educazione di musicista cresciuto fra soul e rock'n'roll,
attingendo alla matrice sudista e riadattando il genere secondo il gusto più "moderno"
del cosiddetto alternative country. In verità si tratta, per lui e per altri compagni
di strada al tempo, di una sorta di riposizionamento nell'alveo della tradizione,
rigettando in un solo colpo le produzioni adulterate del mainstream contemporaneo.
In Poison Love si fa largo infatti un modo di sentire e approcciare la materia
country che ha molto a che vedere con la golden age di Nashville, con la lezione
country rock dei Settanta e naturalmente con i cosiddetti "New Traditionalists"
del decennio successivo. Non a caso Miller duetta con uno di loro, Steve Earle,
nella title track: nello stesso periodo diventa chitarrista ufficiale dei Dukes
e si divide anche con la band di Emmylou Harris. Quest'ultima ricambia prestando
voce e chitarra acustica in Don't Tell Me,
uno dei numerosi episodi firmati da Buddy con la moglie Julie. È esattamente l'alta
qualità del repertorio scritto dalla coppia per l'occasione a rendere Poison Love
una conferma e un rilancio per la carriera di Buddy Miller: le fragranze country
soul di Baby Don't Let Me Down, le tessiture
old time, con il fiddle e mandolino di Tammy rogers, in Love
Grows Wild, a dimostrazione dell'educazione bluegrass di Buddy, e ancora
Draggin the River e Help
Wanted, brani che esaltano il timbro rurale delle voci. Due invece
le tracce firmate con l'amico Jim Lauderdale, dal classico honky tonk di Love
in the Ruins alla chiusura di Love Snuck Up
il disco acquista il tenore di una piccola mirabile lezione sull'espressività
della country music più sincera.
Midnight and Lonesome [Hightone, 2002]
Forse
il primo lavoro di maniera nella discografia di Miller, Midnight and Lonesome
non si discosta in fondo dal resto della sua produzione, per sonorità e tematiche,
ma risente per la prima volta di una certa debolezza compositiva e di scelta del
repertorio. L'album compare dopo il successo di critica ottenuto dalla collabprazione
quattro mani con Julie Miller e difatti Buddy continua in qualche modo ad affidarsi
ciecamente alle cure della moglie, che porta in dono nuove canzoni, lasciando
quindi libero l'estro di musicista roots dalle ampie vedute del marito, sia in
sede di arrangiamento, sia nel ripescaggio di brani dalle più disparate tradizioni.
Buddy Miller sceglie dunque in questa occasione di aprire niente meno che con
gli Everly Brothers di The Price of Love,
ballata riverniciata secondo il limpido stile country rock del nostro, sfiorando
poi il soul d'annata con la cover di Plese Send Me Someone
to Love di Percy Mayfield e recuperando un dimenticato Jesse Winchester
in A Shoman's Life. Episodi curiosi senz'altro,
a conferma di una sconfinata passione musicale, ma non del tutto riusciti (il
brano di Mayfield è svogliato). L'accostamento con la produzione di casa Miller
produce un effetto un po' deludente, seppure la squadra di fidati musicisti regga
nell'insieme, tanto da trovare Midnight and Lonesome in molte segnalazioni di
fine anno tra i dischi Americana del 2002. Julie porta in dono la title track,
vibrante hillbilly song marcata dal violino di Larry Campbell, ma quello che resta
non appare all'altezza del suo passato, fatta eccezione forse per una simpatica
giga country intitolata Oh Fait Pitiè D'Amour (Love Have
Mercy on Me). L'unico vero episodio in grado di rientrare in una ipotetica
antologia del meglio della produzione "milleriana" è la ballad elettrica Water
When the Well is Dry, co-firmata con il bravo e misconosciuto Bill
Mallonee, leader dei Vigilantes of Love.
Buddy Miller's Majestic Silver Strings [New West,
2011]
A
coronamento di una crescente stima artistica e di una serie di collaborazioni
prestigiose (da Robert Plant a Patty Griffin, da Levon Helm a Allison Krauss),
Buddy Miller prende in mano le redini di un progetto ad ampio respiro,
che difficilmente può essere attribuito alla sua sola persona. Sorta di opera
corale, dunque, di cui Miller diventa un semplice direttore d'orchestra, produttore
innanzi tutto e quindi centro attorno al quale gestire un insieme di musicisti,
The Majestic Silver Strings si presenta sulla carta come il possibile
apice della rivisitazione country e Americana operata negli anni dallo stesso
Buddy Miller. Protagonisti gli strumenti a corda di Greg Leisz, Marc
Ribot e Bill Frisell, a formare un quartetto con Buddy e chiamando
di volta in volta una voce (spesso femminile), un ospite, un abbellimento, cercando
nuove prospettive per alcuni classici e traditional di pubblico dominio. Intenzioni
ambiziose, cast stellare, ma come spesso capita in queste occasioni un risultato
sopra le righe, frenato dalla eccessiva velleità artistica: suonato divinamente,
prodotto altrettanto bene, The Majestic Silver Strings resta tuttavia una cartolina
troppo lucida, un lavoro manieristico che cerca di immettere nuova linfa nelle
versioni di Cattle Call, Why
Baby Why (George Jones), I Want to Be With
You Always (Lefty Frizell), ma finisce per cancellare il carattere
brusco, sincero degli originali. Come anticipato, qui Buddy Miller è soltanto
un pezzo del puzzle, seppure si carichi sulle spalle la responsabilità dell'organizzatore:
insieme a lui è forse Marc Ribot a offrire i risultati più spiazzanti in Bury
Me Not on the Lone Prairie, nonostante si tratti di folk song oblique
il cui approccio appare lontano dalla sensibilità degli altri protagonisti. Lo
stesso Chocolate Genius, ospite in Dang Me,
trova un sentiero spiazzante. Il resto tuttavia ottiene l'effetto contrario: sono
le voci di Lee Ann Womack (in Meds e Return
to Me), Emmylou Jarris (Why I'm Walkin')
e Shawn Colvin (That's The Way Love Goes)
ad addomesticare un disco dal tono strumentale irreprensibile, eppure un po' svuotato
di senso. Nel finale ricompare la moglie Julie per un duetto nell'autografa God's
Wing'ed Horse, ma si tratta solamente di un bagliore.
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