When U2 Comes To Town "The
Joshua Tree" e i deserti americani, 1987-2017
[di Marco Denti]
La
musica sottolinea il tempo in modo diverso dai calendari e in prospettiva non
pare così eccentrico pensare che per gli U2The Joshua Tree sia
cominciato con Robbie Robertson. La distanza è minima (The Joshua Tree è uscito
nella primavera del 1987, il disco solista di Robbie Robertson in autunno) e gli
U2 non potevano avere un anfitrione migliore per la loro puntata sull'American
Roulette. Molte delle logiche estetiche collimano e non solo per il trait d'union
ovvio rappresentato da Daniel Lanois, produttore di entrambi gli album. Perfino
gli artwork sembrano complementari (per non contare, ovviamente, il fatto che
gli U2 suonarono per Robbie Robertson). Però è l'America e non è l'America perché
Robbie Robertson e Daniel Lanois sono americani, ma canadesi e gli U2, europei,
ma irlandesi. Nella festa dei paradossi alla fonte di The Joshua Tree,
poi, è Robbie Robertson ad attraversare l'Atlantico per andare a incidere a Dublino,
ma il percorso sarebbe stato valido anche al contrario. Sono entrambi dischi di
migranti, di viaggiatori che si trovano da qualche parte dove c'è un fiume impazzito,
o un deserto con tutte le sue leggende, e i suoi fantasmi.
E' così che,
grazie a Robbie Robertson, gli U2 finirono per suonare con Gil Evans, uno dei
turning point di tutto un lungo e intenso periodo che, nella sua espressione migliore,
portò allo zenith di The Joshua Tree. Erano giovani ed erano forti, gli U2, ma
non erano Luminous Times, allora così come non lo sono oggi, visto che
Bono diceva: "Vorrei tanto dire che non siamo in pericolo, ma in realtà lo siamo".
Ecco, avevano ancora il coraggio di non nascondersi nell'ironia, di esprimere
le emozioni e i sentimenti senza editing, uno dei motivi per cui The Joshua Tree
è sempre attuale e, in gran parte, sorprendente. Un disco che che racconta i conflitti
e, come sanno fare i grandi artisti, li sovrappone a temi intimi e personali e
da quel caso ne trae energia vitale e profetica. Se si ripensa alla celebrazione
dei minatori inglesi in Red Hill Mining Town,
la cui protesta è stata archiviata (troppo in fretta) come una lotta di retroguardia,
in virtù delle condizioni generali dei lavoratori del ventunesimo secolo, si capisce
che The Joshua Tree era un passo avanti, forse di più. Non di meno, Running
To Stand Still, un'altra variazione sul tema della tossicodipendenza
già affrontato in Bad, mostrava gli U2 in grado di confrontarsi con ombre, scheletri
e spigoli impliciti al rock'n'roll. Trasfigurare quelle contraddizioni nell'attrazione
fatale, ineluttabile e implacabile, per il luogo dove tutto è cominciato, è la
spinta che portato gli U2 fino a confrontarsi con le "leggende del deserto americano".
"Una specie di ritorno a casa" che comincia con l'album di transizione
che ha avuto più successo nella storia del rock'n'roll ovvero The Unforgettable
Fire. I riferimenti, da Pride (In The Name of Love) a MLK, da
4th of July a Indian Summer Sky fino a (evidentemente) Elvis
Presley And America sono un ponte sull'oceano, ma restano un riflesso. Per
The Joshua Tree, invece, l'America è il suo centro di gravità.
Ci arrivano attraverso le letture di Bono, impegnato ad approfondire James Agee
e l'onnipresente Flannery O'Connor (su consiglio di Bruce Springsteen), che porteranno
a Exit, una di quelle canzoni che hanno avviato
la trasformazione verso le parti migliori di Achtung Baby. Ispirata al "Canto
del boia" di Norman Mailer, ma anche da "La morte corre sul fiume"
di Charles Laughton (ricordano tutti il film, non il romanzo di Davis Grubbs)
Exit prende la voce dal punto di vista sbagliato, quello criminale. Una prospettiva
completamente diversa per gli U2, possibile (forse) soltanto con una visione americana,
quella di immedesimarsi nel personaggio, di approfondire così tanto la vita delle
canzoni, quasi perdendosi dentro. Impossibile non notare l'attinenza con Nebraska,
l'influenza nascosta di The Joshua Tree, ma è la dimensione del paradosso di Exit
che esponendo gli U2 in prima persona li attira a identificarsi nell'intero dualismo
che stanno vivendo, proprio a partire dal legame con l'America che, detto da The
Edge, "sembra contenere allo stesso tempo tutto ciò che c'è di grande e tutto
ciò che c'è di terribile nel mondo". Una precisazione doverosa visto che uno dei
titoli del work in progress era The Two Americas, ovvero il "continente" in sé
e la "nazione" degli Stati Uniti, come amavano distinguere gli stessi U2.
Ne
avevano di ragioni: pur mettendo in conto i monumenti naturali (compresa la yucca
brevifolia alias The Joshua Tree, una pianta che nasce nei deserti americani),
lo spettro di Gram Parsons, i varchi intrapresi "dove le strade non hanno nome"
vanno in molte direzioni, più di tutte, verso la parte meridionale del continente
americano dove la "nazione" America non ha proprio dato il meglio di sé. E' quella
dei massacri in Nicaragua e Salvador riportati dalle tensioni elettriche di
Bullet The Blue Sky o dei regimi responsabili delle atrocità subite
dai desaparecidos narrate in Mothers Of Disappeared. "E' un disco aggressivo"
dice The Edge e in effetti lo è talmente tanto che non teme di misurarsi con le
voci che invocano la fede, un territorio infinito e delicato. In God's
Country è l'abbraccio segreto di The Joshua Tree, l'indicazione con
cui, secondo Bill Graham, "gli U2 hanno trovato lo spiraglio attraverso
il quale comprendere gli eccessi dell'America". Comprendere è forse un termine
eccessivo, coniato più dall'entusiasmo del giornalista irlandese, che dalla concretezza
delle destinazioni, ma almeno c'è "il tentativo di delineare un sentimento". Lo
diceva Bono a proposito di Where The Streets Have No Name, per inciso,
una canzone che ha una stretta parentela con Road To Nowhere e poi tematica con
True Stories dei Talking Heads, una fonte d'ispirazione criptica che diventa esplicita
cercando, tra le outtakes di The Joshua Tree, Desert Of Our Love.
Nel
paesaggio americano visto dall'Irlanda c'è un rapporto di reciprocità e di sincero
stupore, dove i confini dello spazio illimitato contengono la madre di tutte le
contraddizioni, mai descritta altrettanto meglio di Jean Baudrillard in America:
"L'America realizza tutto, e lo fa in modo empirico e selvaggio. Noi non facciamo
che sognare e ogni tanto passiamo all'azione, l'America invece trae le conseguenze
logiche, pragmatiche, di tutto ciò che è possibile concepire". Perdersi è il minimo,
e intrapresa la via più difficile, lasciata la Death Valley, abbandonate le "luci
e ombre", "l'unico problema è trovare un luogo che non sia America" diceva Bono
parafrasando la sentenza definitiva per cui secondo Wim Wenders "l'America ha
colonizzato il nostro inconscio". E' vero, ma bisogna anche ricordare che stiamo
parlando di "un sogno rimandato", come lo chiamava il filosofo Philip Slater.
The Joshua Tree elenca i resti di quell'illusione, con l'amaro
in bocca al risveglio, tre accordi e, come disse Adam Clayton, "alcune verità".
Immerso a sua volta nella Storyville, Robbie Robertson in Day Of Reckoning
cantava di una terra, "dove non cambia mai niente, dove niente rimane lo stesso".
Il calembour contenuto dalla cartolina da New Orleans spiega alla perfezione l'America,
immaginata, immaginaria e reale e The Joshua Tree. Non è l'album "americano" degli
U2: è un disco che parte dalle radici e alle radici ritorna, e le radici
sono le canzoni. Prima di essere fagocitati davvero dall'America (cosa che avverrà
puntualmente con Rattle And Hum), pagandone comunque tutto il prezzo, quello
determinante in The Joshua Tree è lo sforzo per far "uscire allo scoperto" la
parte in ombra, che sarà poi la base per molte canzoni nel futuro. La necessità
di trasformarsi degli U2 li porterà a Berlino, ma allora la diatriba era se cantare
come Patti Smith o come Robbie Robertson. Se gridare al mondo, o sussurrare alla
polvere.
Il passaggio è anche sintomatico della scelta degli U2 di cercare
canzoni più definite, più circoscritte, più radicate, insomma canzoni che fossero
canzoni e non segmenti di improvvisazioni, jam, session, poi ridefinite nel lavoro
in studio di registrazione con produttori e tecnici. La svolta è tutta lì, in
fondo: fine delle canzoni scavate dentro un sound, inizio di un suono inventato
per ogni singola canzone, un metodo che peraltro avrà poi applicazioni deleterie.
Ma se dietro The Joshua Tree c'è la visione di The Edge, come lo sarà sempre più
spesso, da lì in poi, soprattutto nel ruolo di ufficiale di collegamento con Brian
Eno e Daniel Lanois, l'unità di The Joshua Tree è sottolineata dalle parole, tutte
di Bono e mai così spontanee e naturali: "immagini vividi, efficaci", riassunte
senza correzioni in un'altra (grande) outtake, Silver
And Gold. In effetti come sosteneva Bono "La vera forza del disco è
che attraversi gallerie buie e paesaggi desolati, ma al centro di tutto c'è la
gioia". Quell'equilibrio vissuto pericolosamente in bilico sul confine, è anche
all'origine di un cambio d'immagine radicale.
Gli U2, da sempre
molto attenti al contorno, che già dall'episodio successivo sarà predominante,
scelgono il nero e le sfumature dell'oro per incorniciare The Joshua Tree. Il
ritratto di Anton Corbijn è la definizione finale: "E' una delle migliori foto
di gruppo che abbia mai scattato. Gli sguardi, il calore, l'effetto di rotondità
della terra, quell'albero dell'accidenti, è perfetta, e anche di più. Ne sono
molto contento e orgoglioso, in più mi riporta alla mente bellissimi ricordi.
C'è una foto straordinaria, che ho sempre amato, scattata negli anni sessanta
da Elliot Landy alla Band in cui i componenti del gruppo sono tutti in fila in
un campo. Questa immagine racchiude lo stesso tipo di emozione". Risentito (e
rivisto) a distanza di trent'anni, The Joshua Tree appare meno epico
e più drammatico, tanto è vero che, giusto per assecondare gli U2 nell'impressione
di The Edge, si può intravedere "un paesaggio quasi cinematografico". Eh, sì:
un gran bel film, il sequel non era necessario.