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Charlie Watts
Charlie's Last Blues |
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Charlie Watts [a cura di Roberto Giuli] Il critico Nick Logan, nella sua “Enciclopedia
del Rock” del 1976, scriveva a proposito dei Rolling Stones:
“Nonostante il nuovo album non abbia entusiasmato (“Black
And Blue” ndr), il gruppo ha dimostrato, nel corso del tour
europeo, di non aver perso nulla della magia dal vivo. Jagger
possiede una completa agilità e un totale controllo del palco”.
Inaudito, con il senno del tempo, per un frontman avere trentatrè
anni, lui che già nel 1966 affermava di “pensare di durare
fino alla fine del decennio”; da non considerare poi Bill
Wyman, il bassista, che di primavere ne aveva all’epoca quaranta.
Mick, Keith e soci si trovavano ad uno strano incrocio, erano
già una vecchia band ma inaspettatamente avevano “completa
agilità” e tanta energia per andare avanti. Come dire, può
una rock’n’roll band suonare per trenta, quaranta, cinquant’anni?
Lo ingnoriamo, bisogna aspettare trenta, quaranta, cinquant’anni
per vedere. Era figlio di un tempo in cui bisognava pensarci
bene prima di lasciare un lavoro certo (quello di grafico)
per una carriera da cui traspare un’incognita: in fondo si
può sempre suonare la sera per passione. Jagger e gli altri
faticarono non poco per convincerlo, mentre Ian Stewart, tra
un boogie e l’altro, con il suo lavoro al colosso della chimica
ICI, “faceva mangiare tutti”. Charlie cedette alle insistenze
nel gennaio 1963, dopo essersi fatto le ossa in seno ai Blues
Incorporated e ad altre formazioni, in un periodo in cui l’Inghilterra
era piena di jazz tradizionale e giurava vita corta al nascente
movimento r&b (“A loro noi non piacevamo”, cit. Brian Jones).
Eppure, blues a parte, era proprio il jazz la passione di
Charlie, passione che avrebbe coltivato per tutta la vita,
sintetizzata in notevoli capitoli discografici, tanto con
piccoli gruppi (“quintet” e “tentet”), quanto con la sua “Orchestra”
(celebre il “Live At Fulham Town Hall” del 1986). Erano Elvin
Jones, Gene Krupa, Charlie Parker, il be-bop, lo swing come
elemento stilistico e ancora soprattutto Buddy Rich e Max
Roach, il bagaglio che portò nella band, oltre al drumming
di tanti residenti in quella terra di nessuno chiamata rhythm
and blues, Ben Benjamin, Earl Palmer, Fred Below, Al Jackson
tra gli altri; un mix che splendeva in tutta la sua evidenza
già nel primo album del gruppo, omonimo del 1964, il cui incipit,
per combinazione, consisteva nell’irresistibile rullata di
“Route 66”.
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