Chuck E. Weiss
Denver, 1945 (circa) – Los Angeles, 2021
La storia di Chuck E. Weiss sembra tratta da un dattiloscritto
inedito di Richard Brautigan ed è adatta a una pièce teatrale
di Sam Shepard, così come a una sceneggiatura di Wim Wenders
o a un film in bianco e nero di Jim Jarmusch, soprattutto
quest’ultimo. Una sola scena, l’interno di un night club.
Passano gli anni, cambia il mondo, il locale apre e chiude,
chiude e apre, i bluesman scompaiono, gli amici se ne vanno
(a parte Tom Waits) e lui è sempre lì, a cantare tutta la
notte fino a quando, direbbe Kenneth Rexroth, “la prima luce
risplende in fondo alle strade”, a raccontare di vecchie anime
e attaccabrighe. Sono soltanto le storie, che lo riguardino
o meno, a trasformarsi lentamente (c’è almeno una dozzina
di versioni, per esempio, di come e dove abbiamo incontrato
Tom Waits e ce n’è almeno il doppio quando si parla di Chuck
E.’s In Love, fortunatissima canzone di Rickie Lee
Jones) come se nel passaparola ognuno avesse diritto e dovere
di aggiungerci una propria sfumatura.
Per quanto confinata tra le mura dei locali notturni di mezza
America (con una maggiore frequenza in quelli californiani
e in particolare a Hollywood e dintorni) la storia di Chuck
E. Weiss parte da ben altrove. Denver, Colorado: Chuck
E. Weiss viene da lì (“Ero l’unico ebreo nel raggio di
cento miglia” dice lui) dove fin da ragazzo ha cominciato
a scrivere canzoni, pare dall’età di quattro anni. I primi
versi erano dedicati all’amico di turno, il piccolo Romaine,
che in uno dei tanti scontri l’aveva buttato giù senza tanti
complimenti. Titolo dell’infantile tentativo di songwriting:
Romain Made Me Fall Down. Precoce e, in più, cocciuto,
Chuck E. Weiss è attratto dalla musica come un naufrago dai
miraggi e pur non avendo l’età necessaria frequenta l’Ebbett
Field Blues Club di Denver, dove passano più o meno tutti
i principali act dell’epoca. È ancora uno sbarbato quando,
a furia di insistere, riesce a suonare la batteria con Lightnin’
Hopkins. Non un nome qualsiasi, tanto per cominciare, perché
gli schiude le porte di un mondo. Negli anni successivi, infatti,
Chuck E. Weiss seguirà dal vivo o in studio di registrazione
Muddy Waters, Willie Dixon, Spencer Davis e Dr. John.
All’appello manca solo tale Tom Waits che incontra
nel 1971. Chuck E. Weiss era il batterista fisso del Reese
Coffee House, ancora a Denver, e Tom Waits si preparava per
uno show. Amore a prima vista. La prima collaborazione è Spare
Parts (che finirà in Nighthawks At The Diner
di Tom Waits) ed è solo l’inizio di una lunghissima amicizia:
“Sì, siamo ancora molto amici adesso. Il fatto che siamo amici
da trent’anni vorrà anche dire che abbiamo rubacchiato uno
dall’altro. Certamente, so di essermi ispirato moltissimo
a lui, però spero anche che l’ispirazione sia stata reciproca”.
Chuck E. Weiss (rifiutando di seguire i consigli del buon
Bukowski: “Perché diavolo devi andare a Hollywood, quello
schifo di buco melmoso che non porta da nessuna parte”) ritroverà
Tom Waits (e Rickie Lee Jones) al Tropicana Motel, la loro
Big Sur: scrivono canzoni, provano a far combaciare i lati
di un triangolo impossibile, bevono e fumano, ma soprattutto
sperimentano una lush life destinata a diventare leggenda,
ben oltre i confini della contea di Los Angeles. Sono in buona
ed eterogenea compagnia perché il Tropicana, soprattutto grazie
alla presenza di Tom Waits, è diventato l’epicentro di un
terremoto che comprende i Dead Boys e Sam Shepard, Mickey
Rourke e Marianne Faithfull e molti altri rain dogs e lost
souls di passaggio.
Loro tre diventano inseparabili e “romantici
impermeabili” per dirla con Jack Kerouac, di cui seguivano
alla lettera le indicazioni del 40° Chorus: “È meglio stare
allegri, con l’uva allegra, che avere musi lunghi, guaendo
tutta la notte, cercando un senso, che non esiste”. Loro viaggiano
all night long da un club all’altro, da un party a una stazione
di servizio, saltano sui treni merci e tirano l’alba combinandone
di tutti i colori. Impossibile ripartire in parti uguali tante
emozioni, soprattutto nei limiti di un triangolo: la geometria
non si discute. Nella più accreditata delle versioni, Rickie
Lee Jones e Tom Waits erano in una stanza al Tropicana
quando ricevettero una telefonata da Chuck E. Weiss che chiamava
dal Messico (o da Denver, sui dettagli non c’è mai concordanza).
Lui e Tom Waits parlarono a lungo e quando riattaccarono,
quest’ultimo disse a Rickie Lee Jones: “Chuck E.’s in love”.
Capire chi era innamorato di chi sarebbe già un passo avanti
(l’ipotesi più concreta: Chuck E. Weiss di Rickie Lee Jones,
Rickie Lee Jones di Tom Waits, Tom Waits chissà) ma allo scadere
degli anni Settanta, Chuck E.’s In Love sancisce comunque
la fine del trio e dell’estasi romantica e non chiedete al
diretto interessato di parlarvene perché la risposta, ormai
da mezzo secolo, è sempre la stessa: “Non l’ho scritta
io quella canzone. Dovreste chiederlo a lei, perché ogni volta
che glielo chiedono, racconta una storia diversa”. Eh,
sì, Chuck E. era proprio innamorato: “Ho odiato quella
canzone, ogni suo singolo minuto. Già il semplice fatto che
sia una canzone che parla di me, e non l’ho scritta io, poteva
bastare. Poi tutta questa attenzione per qualcosa che io non
ho mai fatto, beh, ogni volta era come una sberla. Però in
retrospettiva, adesso penso propria sia una bella canzone”.
Il buon Chuck E. Weiss invece è quasi sorpreso nella stanza
al Tropicana: sembrerebbe in ritardo all’appuntamento o parecchio
indeciso sul daffarsi. Anche i presupposti di The Other
Side Of Town sono tali: canzoni brillanti, tonnellate
di passione, un’aura da beautiful loser destinata inevitabilmente
a fare breccia. Il punto è che The Other Side Of Town
era soltanto un demotape pubblicato contro la volontà di Chuck
E. Weiss: era troppo breve e non ha avuto seguito per venti
lunghissimi anni. A dir la verità, tanto The Other Side
Of Town quanto le puntate successive dimostrano che Chuck
E. Weiss era ed è ancora il più rock’n’roll del trio dei tempi
del Tropicana Motel, e se Tom Waits e Rickie Lee Jones hanno
potuto rifugiarsi nell’alveo della canzone d’autore o di certi
esperimenti sonori, a Chuck E. Weiss non è rimasto che rigirarsi
tra le mani i suoi dischi di King Curtis cercando di capire
se il tempo passasse oppure no. Magari pensando ancora ai
versi di Kenneth Rexroth: “Io cammino per la strada, le tre
di mattina, ed è l’ultima primavera della mia gioventù, è
bassa la marea, e l’aria è piena dell’odore dell’oceano”.
Sembra una recensione di The Other Side Of Town.
C’è questa mitologia della sua assenza (discografica) durata
diciotto anni come se fosse stato rapito dagli alieni, fosse
fuggito in Messico o si fosse nascosto in qualche buco a Los
Angeles. Non è così: lui ha detto e ripetuto che si è “distratto
un po’”, ed essendo uno storyteller di primissima qualità,
la battuta ci sta tutta. In realtà ha lavorato ad alcune colonne
sonore, ma senza particolari risultati, se non quelli di racimolare
un po’ di grana. Essendo inoltre un eccentrico a cui poco
importa di seguire regole e consuetudini, ha continuato a
seguire unicamente il suo istinto: “Un sacco di gente in
quegli anni veniva da me con idee e progetti per registrare,
e semplicemente non andavano bene. Alcune di quelle idee erano
veramente assurde: qualcuno voleva persino farmi diventare
uno dei Blues Brothers. In più sono stato parecchio in studio
con Tom Waits, ma dato che non avevo un manager, i nastri
sono rimasti là. Così ho continuato a suonare dal vivo. Dal
punto di vista terapeutico, ho bisogno di suonare moltissimo”.
Non è l’unico problema, perché per suonare con Chuck E. Weiss
ci vuole più cuore che orecchio, più coraggio che tecnica:
“Eh, sì. È difficile trovare i musicisti che mi vadano
bene. La mia musica è così primitiva che se tu hai la terza
media, non puoi entrare nella mia band”.
Con i G-d Damn Liar’s (così vuole il
nome e tra i membri più o meno fissi del gruppo spicca quello
di Tony Gilkynson alla chitarra, di passaggio anche nell’ultima
fase degli X) suona tutte le settimane al Nightclub Central,
una delle tante tappe del nightclubbing di Los Angeles, prima
di cambiare nome. È stato quando Johnny Depp ha rilevato
il locale trasformandolo in Viper Room che Chuck E. Weiss
si è inventato il ruolo di socio e anfitrione capace di sopportare
di tutto e di più. Al Viper Room di West Hollywood, 8852 Sunset
Strip, per la precisione, succede sempre il finimondo. Capita
che un paparazzo trova Mick Jagger teneramente abbracciato
a Uma Thurman (beato lui) e ne segue rissa, puntualmente finita
in tribunale. Ci sono un sacco di concerti (si suona tutte
le sere) che non vengono mai annunciati. Capita che Courtney
Love suoni per l’inaugurazione del nuovo arredamento o che
i Counting Crows e i Wallflowers siano sul palco nella stessa
sera. O ancora che Bruce Springsteen improvvisi un concerto.
Oppure che a guardare lo show di Johnny Cash ci sia un pubblico
composto da Sean Penn, Juliette Lewis, Dwight Yoakam e Tom
Petty. Capita anche che un giovane e già amatissimo attore,
River Phoenix, stramazzi a terra, proprio sul marciapiede
brillante del Sunset Strip davanti all’entrata del Viper Room,
e non si rialzi più.
Tutti i lunedì ci suona Chuck E. Weiss e, per dirla con il
suo migliore amico (Tom Waits, of course) “canta come se il
demonio lo stesse inseguendo”. Sarà proprio Tom Waits (con
la moglie) a mettere insieme le risorse per Extremely
Cool, che è la miglior risposta a chi lo considerava
scomparso o fermo a quell’ultima notte al Tropicana. Curiosa
(e forse simbolica) la fotografia che lo ritrae in copertina,
che risale all’epoca in cui stazionava nel backstage dell’Ebbett
Field Blues Club, come se Extremely Cool ripartisse da “quelle
stanze di gloria”, come avrebbe detto Charles Bukowski “ed
era in quelle stanze, alla mezza luce delle quattro di mattina,
che un uomo ridotto sullo scaffale del nulla, era abbastanza
giovane, allora, per rimanere giovane, sempre”. Con un pizzico
di malizia, la distanza da The Other Side Of Town diventa
persino un argomento in più, ma sulle sue abilità non c’era
da dubitare. “Se andate al Tropicana Motel, guardatevi
da Chuck E. Weiss: potrebbe vendervi il buco di culo di un
topo per una fede nuziale” disse con affetto Tom Waits
e visti i risultati Extremely Cool è giusto e logico
non lasciare passare altri vent’anni prima di vederne il seguito.
Così, ecco Old Soul & Wolf Tickets: “Mi sembra
che nelle canzoni ci siano molte più melodie, come dire, ci
sia più spazio rispetto a Extremely Cool. Anche perché è proprio
così che mi piacciono adesso”. Un canale privilegiato
punta direttamente da Hollywood alla Big Easy, un posto dove
Chuck E. Weiss non che trovarsi a suo agio: “Certo, a parte
Congo Square At Midnight o Dixieland Funeral ho suonato con
un mucchio di musicisti di New Orleans e naturalmente mi piace
quel sound, ma di solito tendo a non notare la differenza.
In Extremely Cool, per esempio, c’era Oh Marcy che è una shanty,
una ballata del mare, scritta con un linguaggio che ho inventato
io. Non è francese, tutti sostengono che è cajun. Può essere,
ma non è che ci pensi più del tanto. Rock’n’roll, Delta, jazz
o blues, Willie Dixon o Muddy Waters per me è tutta american
music, ed è l’unica musica che mi interessa insieme a Jerry
Lee Lewis e ai Rolling Stones”. Loro cantavano “times
is on my side” e il coro si addice bene a Chuck E. Weiss che,
ben lungi dall’essere usa e getta, usato e gettato, i suoi
anni li ha vissuti libero come le note di una canzone. Neal
Cassady lo saluta dal Messico, Charles Bukowski gli pagherà
il prossimo conto al Viper, e Jack Kerouac lo accoglierà tra
tutti gli “agitatori di cuori”.
Extremely
Cool: Chuck E. Weiss attraverso i dischi
[a cura di Fabio Cerbone]
Eccentrico imbonitore e abile showman, Chuck
E. Weiss non è esattamente un musicista secondo i termini
che si intendono nel business di oggi (e neppure di ieri,
se per questo). Mentre gli amici incidono dischi, si costruiscono
solide carriere e ottengono consensi dalla critica, Weiss
non ci pensa proprio ad alzare il culo, semmai resta a suonare
in Southern California, frequenta (troppi) bar e si eclissa
tra i boulevard di Los Angeles, preferendo cogliere l’attimo
piuttosto che stare sotto i riflettori della ribalta. Un primo
lp, per tanto tempo un oggetto di culto, l’esordio The
Other Side of Town (Select, 1981) esce quasi per caso
per la newyorchese Select, pare persino senza autorizzazione,
otto brani in forma di demo divisi in due facciate e manco
mezz’ora di musica che sono però un condensato del pensiero
in musica di Weiss: un irregolare, fuori dai giochi, innamorato
del blues della Chess, dei riff di Chuck Berry e del gumbo
di New Orleans (nel disco sono presenti il piano di Dr. John
e le chitarre del misconosciuto Alvin Robinson), di una canzone
demodè che si perde in un bicchiere di whiskey e nel romanticismo
dei perdenti, narrando le gesta al Luigi's Starlight Lounge
con un talkin’ da scrittore beat, passando per lo stesso Tropicana,
nella canzone omonima, duettando con l’amica Rickie Lee Jones
nel gioiello Sidekick e facendo lo spaccone nei bollenti
rock’n’roll da bettola di Saturday Night Fish Fry e
Juvenile Delinquent. È da qui che emerge l’immaginario
di The Other Side of Town, poetica dell’american dream
al contrario, con Jack Kerouac, Charles Bukowsky e Neil Cassady
scolpiti nell’anima.
Abituale avventore di locali e musicisti della scena rock
d’autore di Los Angeles, Weiss fonda e disfa piccoli combo
musicali, suonando più o meno regolarmente in città per una
ventina d’anni, senza dare seguito a quel disco, che appare
un isolato scherzo, meglio ancora, una coda impareggiabile
della folle stagione al Tropicana. In questo periodo di “buon
ritiro” l’avreste potuto incontrare al club The Central, che
l’amico attore Johnny Depp - da qui in poi uno dei principali
sponsor di Weiss – rimette a nuovo battenzandolo The Viper
Room. Da questo milieu di frequentazioni nasce la spinta decisiva
per tornare a incidere seriamente un disco, con lo stesso
Depp che finanzia l’uscita del singolo Devil with Blue
Sued Shoes e il coinvolgimento del vecchio compadre Tom
Waits e della moglie di quest’ultimo, Kathleen Edwards, che
trovano a Chuck un nuovo contratto con la Rykodisc e gli mettono
insieme una band, poi denonimata The Goddamn Liars.
Extremely Cool (Slow River/ Rykodisc) è pubblicato
agli inizi del 1999 senza particolari trionfalismi, anche
perché Chuck E. Weiss è tutto fuorché una rock’n’roll star
truccata. Si rivelerà uno dei dischi più bollenti e fuori
degli schemi dell’annata. Tra slide guitar che trasudano educazione
delta blues in Pygmy Fund e nella citata Devil with
Blue Suede Shoes, tenere sonate cajun in Oh Marcy
e altri scorci di Louisiana in Horseface, rock’n’roll
saltellante in Jimmy Would, fughe jazzy degne del “sabato
notte” californiano in Sonny Could Lick All Them Cats,
fino a toccare i tribalismi da assurda avanguardia nel duetto
di Do You Know What I Idi Amin (con la complicità dello
stesso Tom Waits, vera anima gemella), il mondo musicale di
Chuck E. Weiss mette in scena qualcosa di straordinariamente
agli antipodi rispetto agli stardard moderni del rock più
ligio alle regole. Il suo universo mostra i caratteri del
nonsense, della stralunata goffaggine, del gusto per l’assurdo,
tanto appare anarchico e sconclusionato, compresa una voce
sgraziata, che alterna rantoli e falsetti. La scuola è la
stessa a cui appartiene l'amico di sbronze Tom Waits, quella
del sogno rovesciato della Beat generation, degli outsider
sempre fuori posto, dei Captain Beefheart, dei Mojo Nixon
e dei Tav Falco, per citare anticipatori e prosecutori di
un’arte applicata al rock’n’roll in grado di sabotare e scardinare.
Musicalmente razzoliamo in territori comuni, pescando nel
torbido dell'American music, in quella memoria dimenticata
in un angolo, attraverso blues scalcagnati, ballate infarcite
di allusioni jazz e cantate ai confini del lecito, ritmiche
tribali da lupo mannaro, gioiose melodie cajun e cacofonie
rhythm'n'blues.
Old Souls & Wolf Tickets (Slow River/ Rykodisc
2001) ripropone il mattatore delle notti di Los Angeles a
soli due anni di distanza dal precedente, dopo che ne aveva
impiegati una ventina per rifarsi vivo. Ci ha preso gusto.
Il clima sonoro lo si assimila, tutto e subito, nei cori e
nelle ritmiche primitive di Congo Square At Midnight,
brano manifesto di una raccolta tra le più ispirate della
parca produzione di Weiss, con ogni probabilità il vero e
proprio climax sonoro raggiunto dal nostro protagonista. Un
disco che gioca sul groove, sulle sfumature, che conquista
a poco a poco, con arrangiamenti tanto essenziali quanto geniali,
mostrando alternativamente le facce disparate del boogie (Tony
Did The Boogie Woogie, Jolie's Nightmare), del
puro gesto rock'n'roll (Two-Tone Car), della morbida
ballata da after hours (Blood Alley), del torbido swamp-blues
(Sweetie-O ed una Down the Road a Piece datata
1970 in coppia con Willie Dixon, recuperata chissà dove dai
cassetti), chiudendo trionfalmente con un bagno purificatore
fra le amate radici di New Orleans, grazie alla parata sudista
di Dixieland Funeral.
Weiss, un record visti i trascorsi, si convince che nel nuovo
millennio c’è spazio anche per un atipico come lui, e si ripresenta
con il terzo album, 23rd and Stuout (Cooking
Vinyl, 2007). Questa volta però passano sei anni e cambia
anche il produttore, il compianto Don Heffington, batterista
di prima classe che affianca il fedele chitarrista Tony Gilkyson.
Il tempo lo avrà addomesticato? Forse Chuck avrà messo
la testa a posto? Neanche per sogno: basta seguire la scaletta
scalcinata dell’album, profeticamente sottotitolato Deranged
Detective Mysteries. Se possibile ancora più scuro e provocante
dei predecessori, il disco è un continuo percorso ad ostacoli,
una raccolta di blues lascivi e ballate, di rumori e sermoni
fatti apposta per anime irrequiete. Torna immancabilmente
a galla il confronto con l’alter ego Tom Waits: come non captare
il suo respiro tra queste canzoni da ora tarda, immagine di
una Los Angeles viziosa che forse esiste soltanto nella testa
di Chuck E. Weiss. 23rd and Stuout mette l'ascoltatore
con le spalle al muro: o entri in questo mondo e ne condividi
l’ironica follia o ne verrai inevitabilmente respinto. Un
investigatore improbabile che parte dal blues cubista di Prince
Minsky's Lament e ne combina di tutti i colori. A volte
perde la bussola, si compiace della sua stessa stravaganza,
ma non manca di infilare colpi di genio: i borbottii spanish
di Novade Nada, con la chitarra noir di Gilkyson; Half
Off At The Rebob Shop e la stessa 23rd & Stout,
che improvvisano una sorta di talkin' jazz; She Is Cold
che farfuglia in falsetto con tanto di sax tenore e baritono
al gancio; Room With A View, che risulta un delirio
di vocine e blues tribale. In questo disordine alcune ballate
risaltano e fanno da collante: la strascicata Another Drunken
Sailor Song, una Primrose Lane degna di un night
club per cuori solitari, approdando al country straccione
di Piccolo Pete. Saluti e passerella finale sulle note
di un boogie rock stropicciato, Goodbye, So Long.
Altri sette anni di pausa “ragionata”, per raccogliere idee,
schizzi, bozzetti di canzoni, sempre con il sostegno mediatico
(ed economico, visto che risultano come executive producers
del progetto) di Johnny Depp e Tom Waits, e Chuck fa ritorno
con Red Beans and Weiss (Anti, 2014), tredici
episodi che rappresentano la quintessenza del suo stile. Siamo
ancora circondati dai chiassosi e riusciti esiti artistici
inaugurati da Extremely Cool in poi, in quella terra
libertina dove swing d'altri tempi, caldi ritmi voodooo, languide
atmosfere jazzy e fangosi blues elettrici si incontrano per
dare vita ad una festa degna del club più pericoloso e malfamato
che esista in città. Assecondato dai suoi Goddamn Liars, Weiss
fa letteralmente il bello e il cattivo tempo partendo dal
boogie incalzante di Tupelo Joe e infilandosi tra cacofonie
degne di Captain Beefheart e blues da ore tarde ereditati
dal suo mentore Waits. Splendida copertina infarcita di icone
americane, Red Beans and Weiss svela una prima facciata
più stravagante, tra le sensuali e svagate cadenze jazz di Shushie,
il funkeggiare di That Knucklehead Stuff e il gracchiare
blues di Bomb the Tracks, terreni su cui far viaggiare
liriche sragionate e scioglilingua. Poi parte il piano boogie
di una strepitosa Exile on Main Street Blues (Jagger
e Richards ringraziano compiaciuti) e la festa può avere inizio. Kokamo
(Boy Bruce) cambia registro e si inoltra verso il groviglio
delle notti al Tropicana Hotel, mentre Hey Pendeyo fa
un'altra pazza giravolta e punta dritta verso il Messico,
strampalata polka che piacerebbe ai Los Lobos, Dead Man's
Shoes e Old New Song alternano sax roboanti e chitarre
elettriche facendo volare gli stracci, e l'r&b appiccicoso
di Oo Poo Pa Do in the Rebop ha una titolo che da solo
vale il prezzo del biglietto.
Senza appigli, l’universo di Chuck E. Weiss non prevede alcuna
metodologia, semmai la follia del momento, l’estro del caos
e della strada, quella di Waits, di Cassady, di Kerouac. Ed
è per questo che si è fatto amare incondizionatamente: di
personaggi così il mondo del rock'n'roll scarseggia sempre
di più, e in maniera clamorosa aggiungiamo noi. Per questo
ci mancherà il circo di Chuck E. Weiss: signori e signore,
siete invitati ad entrare, ma soltanto se vi scrollate di
dosso un po' delle vostre sicurezze e delle buone maniere.
Divertitevi.