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Willard Grant Conspiracy Suffering Trilogy: in ricordo di Robert Fisher | |
Everything's Fine... A
prima vista, le differenze con quanto lo ha preceduto - il cupo splendore di Mojave,
la più grezza solennità di Flying Low - sembrano sottigliezze impercettibili,
tanto i Willard Grant Conspiracy di Robert Fisher appaiono instradati verso
una formula sonora affascinante e unica nel panorama del folk rock americano dei
primi anni duemila. Le tinte fosche e malinconiche sono un monito e un tratto
distintivo, tremendamente ricche di richiami storici alla tradizione, ma costantemente
volte un passo avanti nella ricerca di quello spleen acustico ed esistenziale
che è appartenuto a band come American Music Club e Tindersticks. Everything's
Fine è il disco della compiuta maturazione per il gruppo, quello
in cui le sfaccettature desertiche e il tono dark del loro sound vengono esaltati
dalla sontuosità degli arrangiamenti, quello dove le canzoni acquistano
la forma perfetta dentro un immaginario di confine, dell'anima e della wilderness
americana. Tra gli elementi centrali per il raggiungimento di questo risultato
vi sono l'innesto più marcato del piano e dell'accordion di Peter Linnane
sul solito, notevole tappeto di strumenti acustici (dobro, mandolino, lap steel
banjo), oltre all'intensa vocalità delle ospiti Edith Frost e Carla Torgerson
(Walkabouts). Colpiscono al cuore le melodie sognanti e la dolcezza dell'iniziale
Notes from the waiting Room, la coralità di Kite Flying,
la rivisitazione originale di un'idea di western sound tenebroso in Ballad
of John Parker, l'incedere regale di Southend of a Northbound Train
e ancora il finale in atmosfera Randy Newman, con la pianistica Massachusetts.
Le poche accelerazioni ritmiche, segno di un distacco dal magma punk e indie rock
in cui il gruppo si è formato, si percepiscono in Christmas in Nevada,
un folk elettrico dalla melodia familiare, smussato dai contorni di organo e armonica,
e nell'immancabile episodio rock dell'album: questa volta niente la rabbiahe fu
di Go Jimmy Go in Mojave si traspone e riappacifica in The Beautiful Song,
forte odore di desert rock, tra i ricordi dei Dream Syndicate e le visioni di
Howe Gelb dei Giant Sand. Quando la rilettura delle radici significa fascino,
profondità ed intelligenza lo strambo colletivo dei Willard Grant Conspiracy
è ormai una realtà consolidata. Muovendosi
su una sottile, scura linea di confine tra canzone d'autore, antica folk music
e suono desertico, i Willard Grant Conspiracy proseguono un percorso di
maturazione lento ma costante, adesso più che mai una delle voci più credibili
dell'universo rock tradizionalista americano. Il ricco collettivo musicale si
allarga per queste registrazioni alla bellezza di undici elementi, esclusi gli
ospiti. Generati nella scena indipendente di Boston, catturati dai grandi spazi
americani, trovano nella vecchia Europa la giusta dimensione per farsi apprezzare:
affascinato dai richiami ancestrali della loro musica, probabilmente attratto
dai risvolti storici del loro recupero delle radici folk, il pubblico europeo
gli ha fornito una seconda casa. Regard The End non solo esce per
la prestigiosa label tedesca Glitterhouse (con cui avevano già collaborato
in passato), ma in gran parte viene anche registrato in uno studio di Lubljana,
Slovenia, con la regia di uno spirito affine quale Chris Eckam dei Walkabouts.
Il corpulento Robert Fisher, autore e vocalist dal timbro funereo, continua il
suo coraggioso tragitto sul lato oscuro della vita: il titolo è quanto
mai esplicito in questo senso. Un'alternanza di ballate che indagano il senso
della morte e della sofferenza, sovrapposte però a voci di speranza, unendo
brani originali e vecchi traditional riadattati alla sensibilità "noir" della
band. Folk-rock che si fa sempre più austero e magniloquente, piano e chitarre
acustiche scarnificate a guidare le danze, questa volta con qualche efficace intervento
della tromba di Dennis Cronin. Fin troppo perfetta nel suo copione, la band sembra
inseguire una maturità eccesivamente formale, eppure tocca nervi profondi
attraverso l'eleganza del Nick Cave più rattristato (The Suffering Song),
rasentando autentici slanci corali (Beyond The Shore, oppure The Ghost
of The Girl In The Well, che cantata in coppia con Kristin Hersh ha un sapore
quasi gospel) e persino armonie pop insolitamente leggere per la loro storia (Soft
Hand). Regard The End aggiunge nuova linfa alla loro affascinante storia,
cancella in parte la polvere west che avvolgeva Evething's Fine, ma resta ancora
uno dei migliori esempi del volto dark della provincia americana. Difficile
definire la formula segreta che nasconde Robert Fisher, sta di fatto che ancora
una volta riesce nel tortuoso compito di tessere una fine trama di rapporti con
tutti i musicisti coinvolti nel progetto Willard Grant Conspiracy. Registrato
fra la Slovenia e i Paesi Bassi, raccogliendo i pezzi sparsi lungo il tragitto,
Let It Roll è un disco che risente innazi tutto dei cambiamenti
all'interno della composizione del gruppo. È sorta così in Robert Fisher l'esigenza
di dare spazio a quei musicisti che non avevano avuto voce in capitolo nel precedente
Regard the End, nonostante avessero compiuto insieme a lui una parte consistente
del viaggio artstico della band. Spuntano così le chitarre abrasive di Jason Victor,
il basso di Erik Van Loo (dai Miracle Three di Steve Wynn), la batteria di Tom
King, il violino di Josh Hillman e il piano di Yuko Murata, in grado di assecondare
un suono ormai riconoscibilissimo e al tempo stesso di accentuare i toni più scuri
ed elettrici che covano sotto le ceneri delle ballate di Fisher. Let It Roll non
è necessariamente il vertice della sua struggente e malinconica poetica, ma si
presenta come un lavoro risolutorio per il futuro del gruppo: invece di ricalcare
la atmosfere languide del citato Regard the End prova a calcare la mano sui riverberi
delle chitarre e sui chiaroscuri del songwriting. From a Distant Shore
e Lady of the Snowline, inizio e fine, commuovono nelle liriche e mantengono
salde le conquiste del passato (compresa la suggestiva tromba del collaboratore
storico Dennis Cronin), nel mezzo una serie di interminabili e sontuose cavalcate
folk rock, racconti di un'America in versione noir. A tratti paiono sull'orlo
di un abisso, sul limite di un imminente collasso: questa la sensazione sprigionata
dai nove minuti e mezzo della stupefacente Let It Roll. Uno spiraglio di
luce si fa largo nell'altro fulcro del disco, la placida ballata Dance with
Me, fra le inattese aperture melodiche offerte dalla chitarra di Jason Victor.
Il timbro elettrico è il punto di svolta di Let It Roll, confermato anche dalla
presenza della nerissima cover di Ballad of a Thin Man (Bob Dylan), che
la band incide per celebrare i quarant'anni di "Highway 61 Revisied".
La caratteristica voce baritonale di Fisher - da qualche parte fra il nero di
Johnny Cash e il blu di Leonard Cohen - oggi più che mai si dischiude verso ballate
sognanti (Breach, Mary of the Angel, Flying Low, scritta
e cantata con Steve Wynn) e persino parantesi istintivamente pop (Crush),
alla maniera dei Willard Grant Conspiracy. Le magnificenti ballate uscite dalla
sua penna hanno trovato finalmente una giusta collocazione sonora, facendo la
spola tra gli States e la vecchia Europa. |
L'intervista
con Robert Fisher Un pomeriggio a Milano, qualche anno fa, poche settimane dopo l'uscita di Regard the End... io e Robert Fisher seduti a un tavolino di un bar, tra un ragazzino impaziente che ordina un cono gelato e gente annoiata che sorseggia un tè, chiedendosi chi sia quel gigante gentile che a turno fa accomodare i suoi ospiti rispondendo a un sacco di domande. [di Fabio Cerbone] Giudicando complessivamente
il nuovo disco, la mia prima impressione è stata quella di
un suono stilisticamente molto più classico, incentrato sulla
forza delle ballate acustiche, su un suono che rincorre il
cuore della musica folk. Era quello che stavate cercando?
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