Nei momenti più difficili emerge la necessità
di esprimersi attraverso lo straordinario linguaggio dell’arte. Ebbene
nelle musica questo ci viene sovente insegnato e Stefano Barigazzi,
classe 1996, nel periodo della quarantena ha tirato fuori anima e cuore
nel suo album da solista Sitting Singin’ Old Songs. In
modo catartico, semplicemente avvinghiato alla sua chitarra e trasportato
dalla sua possente voce, il talentuoso Stefano sfida la tradizione del
Blues. Il risultato? Piace, cattura e si lascia apprezzare ascolto dopo
ascolto. Lodevole e audace l’iniziativa in solitudine. La presenza apparentemente
invisibile alla regia del suo amico Sebastiano Lillo è il supporto al
tutto. Trovare motivazioni coi i tempi discografici che corrono non
è facile e lo è ancora di più trattare una materia come il blues pre-bellico.
Difatti la pubblicazione rientra tra diverse in corso d’opera lavorate
dalla nascente e impegnata Trulletto Records, etichetta con distribuzione
digitale nata nelle campagne di Castellana Grotte sull’altopiano calcareo
della Terra dei Trulli.
La direttrice Emilia Puglia ha generato questa convincente pubblicazione:
dodici home recordings, riletture di brani tra gli anni ’30 e ’40. Si
spazia su tracce note come Rambling on My Mind
e classici di Bukka White, ma si sa andare a fondo rivisitando Blind
Willie McTell e Blind Willie Johnson, chiudendo con l’interpretazione
carica di patos di When The Levee Breaks,
brano che rivive la storica alluvione del Mississippi del 1927. Azzeccati
due apparenti fuoripista: il tributo a Dylan, con una sentita It
takes a lot to laugh it takes a train to cry, e una lodevole rivisitazione
di Jamaica Farewell, resa celebre da Belafonte. Un paio di inserimenti
che ci stanno a pennello e distraggono per qualche minuto dalla parte
più mississippiniana dell’album. Avevo già seguito Barigazzi con la
precedente esperienza di qualità con i Poor Boys, duo legato a sonorità
viscerali fatte di North Mississippi Country Blues e Fat Possum sound.
Sitting Singin’ Old Songs è un ritorno spirituale ad una condizione
più rurale e roots, in questa fase anche piuttosto prematura seppur
sintomatica.
La voce di Stefano cresce e lo stile chitarristico anche. Un’approccio
a tratti ruvido, soprattutto con il bottleneck, quello che ci vuole
per affrontare Bukka White (Aberdeen Mississippi Blues e Shake
‘Em on Down), ma anche ben calibrato in Long
Tall Mama di Big Bill Broonzy e in Junco Partner,
conosciuta da pochi. Si passa anche su uno dei fondatori dell'hill country
blues R.L.Burnside con Mellow Peaches e rivedendo il non facile
Robert Wilkins, rigorosa la versione di That’s No Way To Get Along.
La giovane età e il frutto maturo, che ci lasciano questo disco, ci
fanno sperare su promettenti seguiti e soprattutto su una generazione
che può avvicinarsi allo straordinario “vecchiume” del blues dimenticato.