Armonicista torinese per diverso
tempo alla guida della sua personale Blues Revue, capace di portare
il nome della scena italiana anche a livello europeo, Dave Moretti
compie una giravolta stilistica con il qui presente progetto dei
Blancos, trio messo insieme con la partecipazione del percussionista
Alan Brunetta e del contrabassista Gianfranco Nasso. Con la curiosa
copertina curata dall’artista Diego Zangirolami e la partecipazione
attiva di alcuni dei migliori talenti del circuito roots italiano
(ben noti a noi Francesco Piu, qui al dobro e chitarra acustica
baritona, e Lino Muoio al mandolino), Short Songs, To Be
Strong raccoglie brani inediti che necessitavano di un’altra
veste rispetto al suono urbano, swingato ed elettrico che Moretti
aveva percorso in passato. L’esito è notevole per carattere e
intensità del materiale (e di una vocalità assolutamente espressiva
e adatta al genere), che pesca nelle radici più ancestrali della
musica afroamericana, colorandosi di gospel, di usanza country
blues, di ritmi più “sudisti” e tradizionali, a partire dal canto
innalzato in One Day, ottimo impasto corale, e dalla più
incandescente Butterflies. Il lavoro ritmico, anche sugli
strumenti a corda (Moretti giostra anche chitarra acustica, dobro
e weissenborn) è una delle caratteristiche di un album che evoca
fantasmi musicali del passato ma vuole toccare tematiche attuali,
indagando i dubbi del nostro presente. L’operazione sta in perfetto
equilibrio e tocca una sensibilità da folksinger in Jackie
(tra gli episodi migliori) e nella dolce nenia conclusiva di Walking
By My Side, alternate al sound più spiritato e “mississippiano”
di Heart+Sand e Like a Fish o ancora meglio di una
pulsante e torbida The Keystone.
La presentazione della band sul loro sito
è già tutto un programma, con frasi pittoresche come “Sacromud è
una produzione Labilia che prova a farsi interprete del Sacro
Fango del contemporaneo” che servono a creare una atmosfera quasi
da rito Voodoo intorno al loro blues. I Sacromud non escono
però da un film sui riti di New Orleans (anche se gli piacerebbe),
ma dalle sinuose colline del nostro centro Italia. La sigla è
nuova, ma non i musicisti che la animano, soprattutto il chitarrista
Maurizio Pugno, che vanta una già lunga discografia tra dischi
personali e collaborazioni, vero deus ex machina del progetto
che ha coinvolto l’interessante vocalist Raffo Barbi, la sezione
ritmica formata da Franz Piombino e Riccardo Fiorucci, e le tastiere
di Alex Fiorucci. Registrato a Gubbio ma perfezionato da Alex
Gordon negli Abbey Roads di Londra (non siamo nel Mississippi,
ma anche il Tamigi va bene per una manzoniana “risciacquatura
dei panni in Arno” a benedire il progetto) l’album si compone
di dodici brani originali scritti dalla coppia Pugno/Barbi, e
solo in Exodus un vero coro di nativi americani intona
un canto tradizionale. La prima parte trova una perfetta sintesi
tra io granitici riff di Pugno e l’eclettica vocalità di Barbi,
che avendo anche un bel falsetto nel proprio repertorio, porta
spesso a sconfinare nella funky-music alla Commodores (ad esempio
nel finale con Apple Slice o Dark Clouds). Ma spesso
il loro è un blues lento e fangoso (You’re Ready To Laugh o
The Woman’s Trouble Is Me) o da ballare, come l’episodio
alla Blues Traveler di The Mule o il puro funky di Symmetry.
Molto originali, e per una blues-band credo sia sempre il complimento
migliore.
Stefano
Dentone &
The Sundance Family Band Sunday
Ranch [Go Country records 2022]
Titoli delle canzoni, dell’album stesso
e infine copertina inequivocabili, atmosfera da rock agreste e
dalle timbriche sudiste che attinge alla lezione dei 70s americani
fino ad approdare al suono Americana di queste stagioni, il nuovo
progetto di Stefano Dentone, autore livornese, si avvale
del contributo aperto e jammato dalla Sundance Family Band. Sei
musicisti più due coriste aggiunte, a stemperare con toni gospel
e melodici, una registrazione che prende forma nella dimora di
legno dello stesso Dentone, nella campagna Toscana, Sunday
Ranch è l’album più dichiaratamente roots del musicista,
che in passato avevamo già avvistato con il duo formato insieme
ad Antonio Ghezzani e nel progetto The Running Chickens. Dall’atmosfera
country rock pastorale dell’iniziale The Bayou alla chiusura
con l’incalzante Falling Down Blues, Sunday Ranch vive
del dialogo fra l’elettricità delle chitarre dello stesso Dentone
e di Marco Fontana, di chiara ascendenza southern, e l’anima acustica
e folkeggiante del violino di Chiara Cavalli e del mandolino Valentina
Fortunati. Solide basi country folk (Country Poor Boy),
sferzate rock blues sudiste (Honey I Don’t Know, Changing
Blues), tepore roots (Lot of Loving Left to Do), un’attitudine
all’intreccio strumentale (Sometimes I feel) che ricorda
il lavoro di band come Railroad Earth e Old Crow Medicine Show,
la vivacità musicale della Sundance Family Band è il pregio maggiore
di un disco che sogna e reinterpreta l’America rurale con un approccio
informale e comunitario che ricorda stagioni lontane.
Tornano i ravennati Hernandez & Sampedro,
un duo che avevamo già incontrato fin dai tempi del loro disco
di esordio Happy Island del 2013. E se allora i due si
proponevano come classico duo-acustico di marca West Coast, oggi
la sigla cela una vera propria band che, oltre ai due titolari
Luca "Hernandez" Damassa e Mauro "Sampedro" Giorgi, include anche
la sezione ritmica formata da Giacomo “Jack La Bamba” Sangiorgi
e Luca “El Chapo” Cocchieri (con l’aiuto delle tastiere di Giuliano
“Juanito Guerrero” Geurrini). E se i nomi continuano a sapere
di personaggi di un romanzo di Don Winslow, la musica di questo
loro terzo album Traces, arrivato a sei anni da
Dichotomy, si è fatta invece ancora più sporca e urbana,
e molto ha inciso la scelta di registrare tutte le parti strumentali
in presa diretta a dispetto delle difficoltà logistiche causate
dal lockdown. La iniziale Butterfly pare infatti un brano
dei Buffalo Tom più classici, e l’energia da garage di Superstar
riporta tutti al mondo alternativo e sotterraneo degli anni 80.
Le ballate comunque arrivano (Only You and Me, Diamond)
e sanno anche di college rock alla Del Amitri, ma brani come Broken
Mirrors hanno il sapore degli episodi più rauchi ed elettrici
dei Son Volt, mentre Predestined Life e The Sky Above
The Rain fanno immaginare un viaggio nel Texas dei Bad Religion
visto il loro taglio da punk-rock anni 90. Si distingue la cavalcata
younghiana di More Than I Can Do, quasi la loro Like An
Hurricane, o brani di puro roots-rock da battaglia come Freedom
Run. Il finale è affidato alla bella Sole Survivors
e ad una Warm Wind che recupera la loro passione per suoni
e cori di Crosby, Stills & Nash. Decisamente un buon salto di
qualità.