Era una consuetudine soprattutto
negli anni zero che il frontman di formazioni dedite al metal
anche più pesante uscisse dal gruppo per provare progetti solisti
immersi nel folk e nella musica americana. Un modo come un alto
per ribadire le proprie radici, e la comunione di intenti che
hanno generi spesso visti come lontani e con un diverso pubblico
di riferimento. Christian Draghi ha cavalcato i palchi
italiani ed esteri per dieci anni con la metal-band Doctor Cyclops,
ma per l’esordio solista ha scelto una iconografia da strade blu,
come appare evidente fin dalla copertina. Lui parla di un omaggio
ai songwriters degli anni 60 e 70, da Dylan a Cat Stevens, davvero
molto ricordato fin dalla title-track che apre il disco, e di
un’anima “vintage” che sappiamo benissimo essere ormai modernissima.
Nel disco si alternano episodi di pura roots-music come You
Never know, ballate come Freaking Out, o classiche
cavalcate di marca sudista come Shadow of a Rose. Oppure
episodi di classico songwriting west-coast alla James Taylor come
Rest Of The Day, opportuni inserti di fiati jazz in Cherry
Top offerti da Andres Villani e Claudio Perelli o una Memories
impreziosita dal violino di Chiara Giacobbe. A chiudere la piano-song
Here Comes The Rain, un lento anni 60 segnato dall’ hammond
di Riccardo Maccabruni (When The Silcence Screams) e il riff hard
rock di A Friend in A Bar. Oltre ai già citati, nel disco
suonano alcuni nomi noti della scena roots/blues italiana, come
Marco Rovino dei Mandolin Brothers, Paolo ‘Buddy Blues’ Leandri
all’armonica o jazzisti come la sezione ritmica formata da Stefano
Bertolotti e Roberto Re.
Lost
for rock’n’roll cantava Luca Milani,
trascinato dalla sua passione per sogni, leggende e naturalmente
idoli di questa musica, personaggi e relative colonne sonore che
hanno scandito le tappe della nostra vita, di una crescita che
in fondo non ha mai voluto chiudere i conti con la propria adolescenza.
Idols, appunto, figure che ritornano in maniera
quasi ossessiva nella scrittura rock romantica e dal taglio spesso
nostalgico che accompagna i dischi di Milani, siano questi ultimi
concepiti con i Glorious Homeless, come accadeva nel precedente
Fireworks
for Lonely Hearts, o nella nuova veste degli Hellm,
dove lo stesso Luca Milani compie un passo indietro, condividendo
in tutto e per tutto l'avventura insieme alla band, composta da
Giacomo Comincini alla batteria, Federico Olivares alle chitarre
e Riccardo Marchesi al basso. Nove brani, breve e dritto al punto
come si conviene, Idols sposta leggermente il baricentro degli
arrangiamenti, coinvolto da un tuffo nell’alternative rock anni
90 a cui fa riferimento: gli idoli sono le immagini sfuocate ma
ancora vive di Kurt Cobain o di Scott Weiland, il suono è combattuto
fra il mainstream dei Foo Fighters e il grunge rock da cui partì
la scintilla, con brani immediati come Fun e Say Say
Say, sferzate hard rock nel riff di The Pit, ballate
elettriche e pulsanti come la stessa title track e quei tratti
più “classici” e Americana che emergevano già agli esordi solisti
con Sin Train, qui ribaditi da Whispered e da un’acustica
Time Won’t Wait cantata in coppia con l’ospite Giulia Millanta.
Mancano forse quelle melodie da ko e la spontaneità rock’n’roll
che risaltava nei predecessori, qui più attenti a bilanciare sonorità
dall'energico impatto.
Grand
Drifter Lost
Spring Songs [Sciopero/La
Contorsionista 2018]
Esordio davvero interessante
quello di Andrea Calvo, in arte Grand Drifter, uscito sul
finire del 2018. Adepto della tradizione indie-folk degli anni 2000
e già membro degli Yo Yo Mundi, Grand Drifter miscela tutti i tipici
ingredienti di quel mondo, vale a dire strumentazioni acustiche,
atmosfere malinconiche a autunnali, e una voce spesso sussurrata,
ma con una leggerezza pop (che ormai sappiamo bene essere un complimento)
che rende queste canzoni di piacevolissimo ascolto. Si inizia in
puro stile Elliott Smith con The Ballons’ Boy, seguito dal
brioso indie-pop di Circus Day, giustamente scelto come singolo
(con un video animato da Ivano A. Antonazzo), e a seguire la più
sperimentale Closer Doesn’t Mean Near e alcuni riusciti mid-tempo
tipicamente roots-rock come Human Noise, Flesh and Bones
e Listen To The Soul. Silent Brother mette in
evidenza la fisarmonica di Francesco Ghiazza, mentre Untitle
Waltz cerca un ritmo più sperimentale alla Marc Ribot, fino
al finale leggero con la fischiettata di The Way She KNows
e la title-track. Prodotto dal leader degli Yo Yo Mundi Paolo Enrico
Archetti Maestri (che ha coinvolto ovviamente tutta la band), l’album
vede una folta schiera di collaboratori, tra cui Roberto Ghiazza
e Fabrizio Racchi dei Knot Toulouse, il duo Cri + Sara Fou (Cristian
Soldi e Sara Bronzoni), Michele Sarda (Neverwhere, New Adventures
in Lo- fi) e tanti altri. Disco decisamente riuscito, forse proprio
perché non pretende di cercare l’originalità a tutti i costi, ma
semplicemente un pugno di buone canzoni.
Il
Rumore della Tregua Canzoni
di festa [Il
Rumore della Tregua 2019]
Citano Nick Cave e il Dylan di Time Out Of
Mind i milanesi Il Rumore Della Tregua per presentare il
loro secondo album Canzoni della Festa, giusto per
ribadire la loro appartenenza al lato più gotico di certa musica
americana. Ma la loro musica è italianissima, già candidata quattro
anni fa al Premio Tenco per la migliore opera prima, e qui protagonista
del fatidico secondo album, in cui il cantante Federico Anelli e
i suoi quattro soci (Andrea Schiocchet, Marco Torresan, Marco Cullorà
e Marco Confalonieri) ancor più spingono sui toni più oscuri della
loro ispirazione. Che nella scrittura resta comunque figlia del
cantautorato italiano più classico alla De Andrè, ma sicuramente
parente stretta di molta roots-music d’oltreoceano che vi proponiamo
sulle nostre pagine. Dopo l’intro di Sant’Elena, parte infatti
l’ipnotica Appeso, con la una slide-guitar in grande evidenza,
mentre la successiva Bufalo ha un giro più blues. Ma le influenze
sono varie, tanto che la più melodica I Cani dell’estate potrebbe
anche appartenere ad una formazione di indie nostrano più recente,
mentre Naira torna a una scrittura folk più classica, con
Fango che addirittura sfocia in un ipnotico spoken-blues.
E ancora, gli echi dei 16 Horsepower sentiti chiaramente in Danny
Il Greco, la piano-song di Mercoledì di Festa e una Osso
che potrebbe persino appartenere al De Gregori più tardo, completano
un disco che rinverdisce la tradizione roots-folk italiana con testi
decisamente vicini al modo di raccontare storie della letteratura
americana più classica, e una buona produzione curata da Giuliano
Dottori degli Amor Fou e dall’espertissimo Antonio Cooper Cupertino
al mixaggio.