Molto è svelato già nel titolo di questo Rock’n’Roll
in the Country, che sul dialogo e le dinamiche fra tradizione
ed elettricità, fra roots music e rock poggia le basi per i dieci brani
originali firmati da Paolo Roberto Pianezza, voce e chitarra alla guida
del trio. Nati nel 2017 a Bologna dall’incontro fra musicisti di diversa
esperienza ed estrazione musicale - il bassista Mattia Bigi con un curriculum
nel mondo del metal e pop italiano (dagli Extrema a Biagio Antonacci,
un bel salto) e il batterista Tommy Ruggero con studi negli States e
collaborazioni con artisti africani - i Gigowatt evocano potenza
nel nome (che deve qualcosa al Doc di Ritorno al futuro), ma
negli abiti di copertina (e nei video realizzati per accompagnare i
primi singoli) chiariscono la loro propensione per un suono che rispetti
i classici e l’America più iconografica.
Pianezza lo abbiamo incontrato di recente anche alla guida del Lovesick
Duo e se in quel caso l’attitudine era vintage, immersa nell’evocazione
degli spiriti degli anni Cinquanta, alla ricerca delle fondamenta dell’american
music, in questa occasione alla ricetta musicale del trio si aggiunge
una certa spavalderia figlia del southern rock, del blues elettrico
di marca texana, nonché tonnellate di rockabilly ripassato nella padella
di Chuck Berry e messo a contatto con un arrangaimenti più sbarazzini,
annunciati dalla stessa title track, galoppante brano che ha l’onere
e l’onore di aprire le danze.
Disco che fa del divertimento e dell’intesa fra i musicisti il suo punto
di forza, Rock’n’Roll in the Country ha il pregio di mettere
sul piatto materiale scritto di proprio pugno, senza cacciarsi in un
angolo con l’ennesima rivisitazione di qualche standard, sebbene nella
sua scaletta non ci siano particolari intuizioni. L’intento semmai sembra
quello di preparare il terreno per un’esibizione dal vivo, dove l’esuberanza
di Don’t Even Think About It ed End of the World, il carico
di swing e shuffle che emerge in You Might See Better Too e Baby
I’m Ready o ancora le sferzate sudiste di I Do Believe We’re
Through avranno terreno facile per prendere il largo. In studio
si bada piuttosto a mediare fra energia e cura dei dettagli, concedendosi
anche un paio di “pause” nella forma della ballata un po’ retro in New
York City Wind, con un buon uso delle voci, e nell’ondeggiare country
di Nothing Seems so Important, dove entra in gioco anche una
steel guitar.