Ormai il Blues è internazionale e lo si suona dalle calde terre della Hill County
fino alla Val Brembana, senza soluzione di continuità e con risultati qualitativamente
validi ovunque, tant'è vero che uno dei migliori bluesman attuali - a mio modesto
parere - è un certo Ian Siegal, che di americano ha proprio poco ed è abituato
più alla corrente del Golfo che al torrido sole che fa crescere forti e robuste
le piantine di cotone nelle vaste pianure mississippiane. Quindi non stupiamoci
se i Midnight Breakfast, più abituati alla polenta taragna che al pesce
gatto fritto, sono bergamaschi, suonano blues dal 1985, hanno registrato quest'ultimo
disco (solamente il sesto), Close to the Wall, a Londra e l'hanno
mixato nei leggendari Abbey Road studios.
La band, da trant'anni in attività,
è composta da Marco Valietti (voce, chitarra), Stefano Albertini (chitarra), Luigi
Cortinovis (basso), Fabio Carenini (batteria). Le influenze musicali risiedono
tutte nel blues elettrico degli anni '50, da John Lee Hooker (80% JLH direi) a
Howlin' Wolf, e se volessimo accostarli a qualcuno di più recente potremmo fare
paragoni con il trance-Blues di Otis Taylor. Che la band non sia particolarmente
prolifica lo si capisce già dal fatto che hanno registrato solo sei dischi in
trent'anni di carriera e il nuovo lavoro conta dieci episodi che hanno un pregio,
l'unitarietà stilistica e un difetto, l'unitarietà stilistica, appunto. I brani
si succedono praticamente con lo stesso incedere uno dopo l'altro, come se si
trattasse di un'unica jam indistinta, in parte ricordando, nella voce e nelle
cadenze, il citato Otis Taylor, ma senza avere quel ritornello o quella melodia
maledettamente azzeccata che ti fa drizzare le orecchie e battere il piede a tempo.
There is a Bird, con ritmo suadente, apre
il disco, ed è come velluto, morbido alle orecchie, ma che si consuma (e con esso
anche il suo appeal) molto presto. I Missed the Man
è il pezzo più movimentato del disco, un boogie uptempo ben fatto insieme alla
title track Close to the Wall, che parte bene ma il cui cantato, che cerca
di farsi sottile e ricco di pathos a differenza dei toni freddi da crooner degli
altri brani, smorza il pezzo, mentre One of These Mornings e You Hurt
Me So Bad sono canzoni che soffrono non poco della struttura risaputa del
"call and response" tra voce e chitarra e per l'interpretazione indistinta
di Valietti (solamente con il testo davanti si potrebbe capire cosa sta dicendo...).
Chiude Let Me Smoke My Last Cigarette, l'ennesimo
lento che non dà la scossa ma continua con lo stesso mood fino alla fine.
Il disco è ovviamente curato nei suoni, rigorosamente vintage, e la voce
di Valietti è a tratti gorgogliante alla Chester Burnett, a volte gracchiante
alla John Lee Hooker, ma in alcune circostanze sembra solo un borbottio e inoltre
la struttura voce/chitarra che si rincorre in tutte le canzoni è pesante da digerire
sulla lunga distanza. L'album mi ha ricordato molto spesso le atmosfere lente
e dilatate di un altro disco, "Endless Boogie", e come spesso mi è accaduto
ascoltando soprattutto la title track di quel disco, mi domandavo perché il produttore
non avesse o raddoppiato la velocità o dimezzato la durata del pezzo, perché ne
avrebbe forse guadagnato in ascoltabilità. Ma quello era comunque John Lee Hooker,
libero di fare ciò che voleva (anche perché immagino che se qualcuno gli
avesse solo proposto di accorciare un suo pezzo, l'avrebbe mandato a stendere
senza complimenti). Non che questa sorta di blues ipnotico sia disprezzabile,
tuttavia anche il grande JLH (o il suo "discendente" Otis Taylor) sapeva variare
tra le mille sfaccettature del suo incredibile repertorio, senza mai ripetersi
o autocitarsi troppo.