Debuttare con un album dopo i sessant’anni potrebbe
passare per un atto di incoscienza, persino di presunzione, ma prima
dovreste conoscere a fondo la storia della passione musicale che smuove
Paolo Ronchetti da oltre quattro decenni per poter collocare
nella giusta prospettiva questo esordio, Cose da fare. Perché
sono davvero tante le “cose da fare” e già fatte dall’autore, smosso
da suoni, visioni, letture che ne hanno scandito il ritmo della vita
con un desiderio continuo di conoscenza e assimilazione.
È un po’ anche la nostra storia di ascoltatori, se ci pensate, con la
differenza, niente affatto trascurabile, che non tutti decidono di trasferirla
in dieci canzoni, pensate dosando parole e musica in un apprezzabile
equilibrio dove la voce, roca e suggestiva anche nelle sue volute “imprecisioni”
e nei suoi graffi, e i testi, carichi di sensazioni, emergono nella
loro carrellata di esperienze, ma dove anche la colonna sonora che li
accompagna si impone con una propria identità. Il lavoro di produzione
svolto insieme a Michele Anelli (Groovers) non “carica” mai eccessivamente
questi brani, semmai lascia fluire in maniera naturale la varietà di
spunti stilistici che animano l’educazione musicale onnivora di Paolo
Ronchetti e tutto il mondo sonoro e narrativo che esprimono.
La chiave di volta di questo debutto è proprio l’eclettismo di un ascoltatore,
prima ancora che di un autore, lo stesso che negli anni si è gettato
in mille progetti prima di prendere la decisione di esporsi in prima
persona: dal trio vocale dei Gobar alla rivisitazione dei repertori
degli amati Tom Waits (con Tom the Cat) ed Enzo Jannacci, alle collaborazioni
nei dischi altrui fino alla sua stessa attività principale di educatore,
coinvolgendo molti ragazzi nella realizzazione di laboratori musicali.
Il fatto che Cose da fare sia un disco che ha avuto una
lunga, anche complicata preparazione alle spalle, interrotta a più riprese
da motivi di salute personale, non lo rende affatto confuso nel suo
toccare i numerosi punti cardinali della canzone rock d’autore.
Lì dove la migliore tradizione italiana del genere emersa nei Settanta
(l’uno due posto in apertura con Attendo il sereno e Gatsby,
la stessa accorata dimensione della title track) incontra gli stimoli
legati al jazz americano (notevolissima Donna,
sia testo che musica, in un viluppo da Blue Note con Ausonio Calò e
Marco Piccirillo al sax e contrabbasso), le strutture più dirette di
un rock che si nutre di espressività soul (Indifferentemente,
tra i passaggi migliori della raccolta), della poetica beat del citato
Tom Waits (che un po’ si inflitra nelle semplici trame naif di L’amore
è una focaccia calda, in duetto con Laura Ceriotti), magari passando
per l’adorato John Zorn (Padrone,
con il sax debordante di Luigi Napolitano), a qualche sconfinamento
verso le leggerezze del pop (l’immediatezza elettrica del primo singolo,
Cosa devo fare, la giocosità di una Vedi come passa il tempo
che ricorda il Paul Simon degli anni Ottanta).
Paolo Ronchetti si tuffa letteralmente in questa avventura, supportato
anche da musicisti che sono prima di tutto amici, compagni di strada,
persino parenti (il nucleo dei cosiddetti Uncles Nephew’s, insieme ai
quali si è spesso esibito) con tutto lo spirito entusiasta di chi lo
ha vissuto come un’esigenza vitale, prima ancora che come un vero progetto
artistico: il pregio sta proprio nel fatto che Cose da fare,
pur con qualche slancio di generosità tipico delle opere prime, è un
album che nelle sue passioni manifeste riesce a esprimersi con una voce
musicale riconoscibile.