Molti hanno provato a tradurre un certo suono americano
da "provincia rock" alle nostre latitudini, pochi lo hanno
fatto con l’intensità e l’aderenza al modello di riferimento come Stiv
Cantarelli. A maggior ragione adesso, che si presenta l’occasione di
rispolverare la sigla Satellite Inn, trio che aveva aperto un
lungo vagabondaggio tra il suono più crudo dell’allternative country,
in quegli anni Novanta che vedevano il genere risplendere di mille protagonisti.
C’erano anche i Satellite Inn, che superate diffidenze e distanze approdavano
direttamente negli Stati Uniti, pubblicando quel Cold Morning Songs
(1998) che faceva parlare di sé nel sottobosco delle uscite indipendenti,
soprattutto perché pubblicato, così vuole la storia curiosa e un po’
sfortunata della band, da quella MoodFood Records che era stata la stessa
etichetta dei Whiskeytown di Ryan Adams.
Mentre questi ultimi prendevano il largo per il loro epocale esordio
su major, Strangers Almanac, i Satellite Inn lavoravano nell’ombra
e affrontavano un tour americano, portando in giro con credibilità le
loro canzoni, anche da “intrusi” italiani. Va da sé che i fatti presero
un’altra piega e i Satellite Inn non acciuffarono mai il loro momento
di gloria, anche se Stiv Cantarelli ha continuato con tenacia e qualità
a dimostrare il suo talento per tutto un mondo fatto di rock’n’roll
spigoloso, sfuriate garage e ballate folk desolate, tra album
solisti incisi insieme ai Richmond Fontaine, e nuove avventure discografiche
con The
Silent Strangers e The ACC.
È con una certa sorpresa dunque che riaffiora la vicenda dei Satellite
Inn, riuniti con i membri originali Antonio Perugini (batteria) e Fabrizio
Gramellini (basso) per offrire nove brani che rinnovano quella tensione
apra e quella malinconia tipica del gesto alternative country, così
come fu espresso nella sua forma migliore. Canzoni nate durante il periodo
del “ritiro” da pandemia, qualche nota al piano (nuovo strumento per
Cantarelli), il resto guidato da chitarre abrasive e solide radici piantate
nel terreno dell’indie rock americano: parte così Bury
the Ashes, che sembra il risultato di una (riuscita) session
tra i primi Rem di Murmur e naturalmente tutto quello che arrivò
dopo l’onda lunga degli Uncle Tupelo.
Registrato con tutti gli angoli in evidenza, come si conviene al genere,
l’omonimo Satellite Inn mette in mostra le sue ispirazioni,
e non nasconde una storia personale che proprio per quanto espresso
all’epoca non può essere affatto tacciata di imitazione, o di sedersi
a tavola con colpevole ritardo. Queste canzoni affondano in una biografia
che arriva da lontano e da lì riparte come nulla fosse:
Two Old Brothers ha dentro di sé il suono dell’America dei
90s, Sam esplode con quella ruvidezza
che era il segno dei primi Uncle Tupelo, Going to Wilmington
possiede il passo arrembante del cow-punk, in una linea che riporta
indietro fino ai giorni dei Green On Red.
La voce asprigna e imperfetta di Cantarelli è quello che richiede il
suono stesso dei Satellite Inn, tra stridori elettrici e momenti di
spleen elettro-acustico che ricordano per forza di cose i citati Richmond
Fontaine, come accade nell’amara dolcezza alt-country di Carry
On, Benjamin (alla lap steel ospite Roberto Villa), o nel
suono più rarefatto di Wayfaring Angel, pronta però a esplodere
nella coda finale, in un susseguirsi di vuoti e pieni che emergono anche
nella latenza blues di Happy to Survive e in
The Dead Believers, quintessenza, potremmo affermare, di
un suono che abbiamo amato, riflesso in band e songwriter che hanno
descritto paesaggi e sensazioni legati a territori tanto dell’anima
quanto concretamente reali. La riprova è il commiato finale dei Satellite
Inn, quando One Last Look and I’m Gone
dilata l’ambiente con acustica e pianoforte e rende la musica del trio
più onirica e sospesa.
Un bel ritorno, e una seconda occasione, quasi dovuta, per una band
che non ha perso un briciolo della sua identità musicale.