La copertina è un po’ artigianale,
quasi da post social messo a documentare un viaggio che sa di
memorabile per una band italiana tutta chitarre e passione, ma
comunica il giusto sapore degli elementi messi in campo da Luca
& The Tautologist. C’è il cantautore che guarda senza paura
un orizzonte noto solo a lui, brandendo con severità una chitarra
come fosse un mitragliatore, e ci sono i compagni di viaggio sullo
sfondo, colleghi musicisti, ma prima di tutto commensali di mangiate
e bevute, navigatori per non perdere la strada durante i viaggi
alla ricerca di sperduti locali, dove ancora la musica può sovrastare
le chiacchiere da bar. Paiono tre autostoppisti trovati per l’occasione,
ma sono nomi a noi ben noti come il riconoscibilissimo bluesman
Ruben Minuto (qui
si cimenta al basso, ma ovviamente non si fa attendere alla sei
corde e al mandolino quando c’è da duellare con le altre chitarre)
Leandro Diana (chitarre)
e Deneb Bucella alle pelli. Persino la maglietta è un indizio
chiarissimo, il logo di un noto negozio di dischi di Piacenza,
uno di quegli antichi punti di ritrovo per appassionati dove tutte
queste canzoni hanno trovato linfa e ispirazione. Album corposo
questo Paris Airport ’77, più di un’ora di musica
in cui il leader Luca Andrea Crippa ha messo un po’ tutta la sua
vita nei testi in inglese, con uno stile da heartland-rock stradaiolo
pensato nel modo tipico della scena italiana (vengono in mente
Edward Abbiati e i suoi Lowlands in molti momenti), eppure la
title-track iniziale quasi depista sul contenuto, un sopraffina
melodia sognante che fa capire quanto la lezione di Jonathan Wilson
sia oramai entrata nel gergo del genere. Poi Dreams Becomes
Promise e Things…From a Spell (canzone che ha due parti)
riportano tutto a casa, accomunate anche da un finale che aumenta
il ritmo dando sempre più spazio alle chitarre. Tra tante cavalcate
da american-rock si distinguono anche la più tetra Winter Heights
And My Falldowns, con anche inserti di elettronica realizzati
da ZOWA (Lele Ledda), e la baldanzosa Undelivering che
dà spazio anche alle tastiere di Riccardo Maccabruni. Se
state per partire per un lungo viaggio è il disco giusto da mettere
in valigia.
Inutile disquisire ormai sul confine tra
album e EP in tempi di musica liquida, per cui accogliamo come
terzo album di Grand Drifter questo seppur breve Paradise
Window, dopo che già lo avevamo conosciuto coi suoi apprezzatissimi
precedenti lavori Lost Spring Songs (2018) e Only
Child (2021). Sette brani che proseguono il percorso del proprietario
del moniker Andrea Calvo in uno stile figlio dell’indie-folk di
fine anni ‘90 che si sta facendo via via sempre più sofisticato.
Il patron dell’etichetta inglese Subjangle, Darrin Lee, che aveva
creduto in lui per un lancio più internazionale già dal precedente
lavoro (e i tanti concerti tenuti all’estero sembrano dargli ragione),
anticipa un po’ la sorpresa in cartella stampa citando Belle &
Sebastian, Burt Bacharach e il jangly indie-pop in stile Sarah
Records, chiudendo così la porta ad ogni altro possibile riferimento,
se non magari la possibilità di notare che nel passaggio dalle
atmosfere autunnali di Only Child al mood più scanzonato
di questo album, molto fa il giocoso pianoforte in stile Misread
dei Kings Of Convenience che spesso trapunta i brani. Grand Drifter
è oramai un artista completo, capace di giocare in studio suonando
tutti gli strumenti (solo il basso di As the Days Change viene
suonato da The Cascarino), il che forse limita il raggio di azione
al suo particolare stile, che ricorda spesso l’Iron & Wine più
intimo, ma che sicuramente gli permette di concentrarsi molto
sui particolari. Il dono della sintesi spesso è un pregio, ma
visto che stavolta il gioco è pure più brioso e per nulla tedioso,
quando si arriva al finale di Memory and Dust si sentirebbe
quasi il bisogno di almeno un bis. Ma di una cosa sono certo,
se cantasse in italiano, Grand Drifter godrebbe qui da noi di
molta più attenzione, ma se leggete le classifiche di ascolto
del nostro paese vi accorgerete che la musica anglofona è praticamente
quasi sparita, a parte qualche consolidato nome, per cui purtroppo
sempre meno possiamo dire che questo bel Paradise Window (e
bella anche la copertina di Sergio Varbella) rappresenti il nostro
Made in Italy.