Seguiamo Matt Waldon da molto tempo ormai, fin dai suoi esordi con i Miningtown,
e da allora l'artista di Rovigo ha fatto molta strada. Il primo importante salto
di qualità è arrivato nel 2014 con l'album Learn
To Love, dove l'ospitata di Kevin Salem, presente nel precedente
October, ha assunto le connotazioni di una vera e propria collaborazione continua,
seppur a distanza di oceano. Grow Up conferma il vecchio chitarrista
dei Dumptruck (di cui tra l'altro attendiamo trepidanti il ritorno a breve con
un disco che si intitolerà Kingdom of the Young) nel ruolo di ingegnere del suono
e, potremmo dire, produttore ad honorem, anche se Waldon si assume sempre l'onere
del ruolo.
Già il video del singolo Save Me
aveva fatto intuire un nuovo passo avanti, e non solo perché il brano colpisce
nel segno e la chitarra di Salem fa sempre la differenza, ma perché Matt sta finalmente
trovando un suo stile personale nell'uso della voce, che non era certo il suo
punto forte. Non era forse gente come il buon Paolo Conte o Enzo Jannacci (senza
arrivare a citare banalmente Dylan) ad averci insegnato che si può cantare alla
grande anche con una "brutta" (e spesso pure stonata nel loro caso)
voce? Basta saperla usare, e qui sta la grande differenza di Grow Up, album ben
pensato fin dall'inizio strumentale di Hungry Bears,
in cui il chitarrista Carlo Toffano si traveste da musicista sperimentale per
una ipnotica jam che verrà ripresa a lungo anche a fine album, con la memoria
che va a certe strane code strumentali dei cd anni 90 (chissà perché mi viene
in mente la Master/Slave che chiudeva Ten dei Pearl Jam, anche quella richiamata
in apertura di disco).
Il disco vero e proprio parte bene con tre titoli
in una progressione matematica (7 Beers, 14 Rooms, 21 Cigarettes)
che sarebbe stato persin bello tenere fino alla fine, in cui Waldon passa dai
fantasmi d'amore immaginati da un "pale poor kid from an English Town" intento
a dialogare con sette birre sul bancone di un bar, al fumatore incallito fiero
di pagare il prezzo dei propri vizi. Un filo logico tipico del moscone da bar
tanto caro all'immaginario rock che immancabilmente cerca redenzione nell'amore
(Save Me) e nella riscoperta dei propri affetti (la lettera alla madre
di ?!%$). Si finisce con l'andamento minaccioso
di Gone Girl, caratterizzato dal violino di Chiara Giacobbe, e il roccioso
finale all'insegna di un crescendo blue-collar-rock di You'll
Never Get Back, No Slaves e Grow Up, animate da un suono
molto elettrico e da una base ritmica spesso muscolare.
Confezionato in
lussuosa copertina lucida con tanto di plettro personalizzato in allegato (sintomo
di puro amore a perdere per la materia rock), Grow Up si allinea alle produzioni
più interessanti dell' "ITAmericana" alzando volumi e elettricità.