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cover album
di Marco Restelli (27/05/2020)
Dopo aver recensito l’ultimo
album di Vanessa Peters, l’intrigante e in parte oscuro Foxhole
Prayers del 2018, ho avuto modo di approfondire tutta la discografia
precedente, scoprendo ancora meglio le varie sfaccettature del suo songwriting.
La cantautrice di Dallas, che conosce tuttavia molto bene il nostro paese
avendoci vissuto a lungo in passato, questa volta ha deciso di deviare
un po’ dal suo percorso usuale e pubblicare un disco intero di sole cover.
Mixtape, uscito in pieno lockdown, è quindi un album che
raccoglie dieci brani originariamente piuttosto diversi, sia riguardo
ai generi, sia alla tipologia dei relativi autori, per riportarli tutti
nella “casa comune” dell’Americana, con saltuarie venature pop rock. L’operazione
risulta così ben riuscita che in qualche modo la Peters, coadiuvata in
studio dal produttore e polistrumentista Rowan, sembra averle fatte proprie,
così da fornirne una versione filtrata attraverso il gusto e la sensibilità
personali.
Nell’immenso lago della musica contemporanea, la sua rete ha pescato sia
pezzi molto noti al pubblico, sia altri più ricercati adattandone, come
accennato, non solo la veste ma spesso anche il mood. Il caso più evidente
di questo interessante “processo di personalizzazione” a mio avviso si
evidenzia in Bizarre Love Triangle dei
New Order, che come noto è un brano elettronico up-tempo (tratto dall’album
Brotherhood). Vanessa lo ha accorciato e lo ha trasformato in una
intensa ballata, inizialmente basata sul piano e chitarra acustica, ai
quali si aggiungono poi il suono degli archi e vari riverberi che ne ampliano
il sound. Con Florida, presa dal bellissimo Impossible Dream
di Patty Griffin avviene invece esattamente l’opposto: l’originale ha
un incedere lento, e un mood quasi straziante, mentre in Mixtape
pur mantenendo in parte la sua malinconia, suona decisamente più solare
e nel finale ha un crescendo veramente degno di nota. Fra le interpretazioni
che preferisco c’è anche quella di Sister Golden
Hair degli America (registrata
durante l’ultimo tour in Germania) che personalmente ho sempre amato e
che qui, mutatis mutandis, resta abbastanza fedele alla versione di Hearts.
Direi che la limpida voce di Vanessa regge alla grande il confronto con
Gerry Beckley, riuscendo altrettanto ad emozionare, proprio come avviene
con You And Me (da The Last D.J. del 2002) che suona volutamente
più avvolgente di quella di Tom Petty, dall’indole invece più andante
e spensierata.
Prima di concludere cito volentieri, ancorché brevemente per dovere di
sintesi, l’affascinante e sghemba Pink Rabbits (da Trouble Will
Find Me dei The National) e la dolce Packing Blankets degli
Eels che chiude l’album come una carezza finale. Complessivamente ritengo
che l’approccio di Vanessa Peters nell’affrontare brani di altri artisti,
e che ho tentato di descrivere in questa mia recensione, sia il migliore
(mi viene in mente, con lo stesso orientamento, un album come Underwater
Sunshine dei Counting Crows) perché in luogo di tentare di riproporre
un forse inutile dejà vu, prova a farli propri, proponendo qualcosa
che varrà veramente la pena riascoltare più volte.