E’ un altro prodotto del confinamento pandemico,
questo disco del chitarrista canadese Colin James, che all’indomani
dei foschi trascorsi di un anno come il 2020, nutre il desiderio di andare
oltre i limitati orizzonti obbligati a cui siamo stati costretti in tempi
recenti. E non sembra neppure affidato al caso un titolo come Open
Road, che apre al futuro ed è un invito al viaggio, una “strada
aperta” attraverso una manciata di classici rivisitati e brani autografi,
per quattordici tracce in odore di blues e rock stradaiolo, ammiccante
all’orecchio ma mai superficiale, godibile come una rinata libertà dopo
alcune restrizioni.
Barriere vissute sulla propria pelle, dice l’artista di Saskatchewan,
allorché il tour del precedente Miles
To Go è stato interrotto per motivi che tutti possiamo immaginare
e lo stesso James dichiara le difficoltà a proseguire comunque il lavoro,
ringraziando al contempo delle possibilità offerte dalla tecnologia per
poter realizzare lo stesso anche questo ventesimo disco. Open Road
celebra quindi molte delle connessioni in tempi di chiusura, la direzione
stessa al produttore di lunga data Dave Meszaros da Londra, i musicisti
sparsi un po’ qua e là oltreoceano e mai nella stessa stanza, come da
copione di quella reinvenzione del lavoro che per molti ha voluto dire
annullare la divisione tra sfera privata e vita professionale. Quasi una
“permanent-session” che neppure si vorrebbe ripetere, ma che concretizza
egualmente un album di tal fatta, testimonianza del mestiere di Colin
James e dei musicisti coinvolti, che pure lo hanno accompagnato in una
carriera trentennale e gravida di premi nel contesto nordamericano.
Aveva iniziato nel 1988 con un disco omonimo, a battesimo da Stevie Ray
Vaughan con qualche consiglio gelosamente custodito e poi l’avvio di un
percorso che ce lo ritrova nella Canadian Music Hall Of Fame dal 2014,
musicista nazionale e apprezzato artista blues internazionale, tanto quanto
lo possiamo riconoscere anche in questa uscita all’inizio di novembre.
L’ascolto, per parlarvene in anticipo, ci riserva quella bella cover resa
intramontabile dall’Irish Tour ’74 di Rory Gallagher, e As
The Crow Flies di Tony Joe White
verrà riproposta in una altrettanto accesa versione elettrica a piena
band per aprire le danze. Con lui compaiono nomi come Colin Linden o Steve
Marriner, non nuovi a personali progetti paralleli che aggiungono valore
a questo stesso disco, approccio molto rock e chitarristico alla materia
blues delle scelte esecutive, a firma propria o di altri. E assieme a
Joe White, “altri” sono nientemeno che il Dylan di It Takes A Lot To
Laugh, It Takes A Train.. dall’incedere dinoccolato, e Otis Rush per
It Takes Time ancora di rimando a b-sides gallagheriani; con esse
la title-track dello stesso James, per esempio, suono come di un passaggio
notturno attraverso una notte cupa e solitaria.
Nel resto, molto ZZ Top-style talvolta e qualche stesura a quattro mani
come There’s A Fire in chiusura, di
Colin (James) & Colin (Linden), mai diversa per un album in equilibrio
tra chi suona e chi ascolta, divertito e divertente.