Avevamo incrociato Jeremy Pinell nel 2015,
in occasione del suo esordio solista OH/KY.
Quella abbreviazione stava per Ohio/ Kentucky, il primo riferimento per
il grande fiume americano e il secondo per il luogo di origine di Pinell,
cresciuto in una piccola comunità rurale a nord dello stato. Nel frattempo
la sua carriera è proseguita nel solco di quel classico suono country
rock che lo aveva rivelato, e sempre per l’indipendente Sofaburn, attraverso
il secondo lavoro del 2017, Ties of Blood and Affection. Una conferma
del suo nome tra i nuovi cantori del South East e del Midwest americano,
quella immensa fascia di laborioso e spesso dimenticato territorio situato
nel cuore dell’America, agricolo e operaio, che molti talenti ci ha regalato
in questi anni.
Pinnell non regge ancora il confronto con Ian Noe, Sturgill Simpson o
Chris Stapleton, per citarne alcuni dei più brillanti, ma la sua musica
e lo stesso songwriting sono maturati, anche grazie all’intervento del
produttore e chitarrista texano Jonathan Tyler, che ha curato la produzione
di questo terzo album, Goodby L.A., coinvolgendo nelle sessioni
anche il violino di Cody Braun (Reckless Kelly). Un disco dall’anima sempre
molto ruspante, che non rinnega affatto le radici honky tonk del musicista,
ma aggiunge alcune impreviste note soul (Red
Roses, forse la migliore ballata in scaletta) e contaminazioni
r&b (il grasso sax baritono che si affianca in Rosalie), qualche
volta avventurandosi anche in arrangiamenti più robusti e dal timbro sudista.
È il caso quest’ultimo dell’accoppiata fra slide guitar e piano nell’iniziale
Big Ol’ Good, brano che scorazza liberamente in riconoscibili
territori southern rock, proseguendo poi nel respiro texano di ballate
come Wanna Do Something e Cryin’.
La voce di Pinnell, emotiva e roca al punto giusto, è l’ideale compagna
per il suono creato dal gruppo, essenziale espressione di una tipica bar
band americana cresciuta con dosi bilanciate di country e rock’n’roll.
Onesto è l’aggettivo che più vale la pena di spendere nei confronti di
Pinnell e della sua musica, la quale mette i sentimenti e le esperienze
quotidiane al centro dei testi, senza fare mistero delle asprezze della
vita. Tutto questo si traduce spesso in un incalzante honky tonk elettrico
che si riallaccia agli album precedenti, soltanto con maggiore sicurezza
e padronanza dei mezzi: Nighttime Eagle e Doing My Best
sono un’ode al twangin’ sound più verace, quello modellato sulla legge
delle Telecaster, prendendo appunti da Dwight Yoakam (la stessa Goodby
L.A. ci va molto vicino) e naturalmente dai numerosi maestri
outlaw texani. Come dire che il nostro Jeremy staziona sempre lì in mezzo
al guado, pronto a combattere la sua battaglia (Fightin’ Man),
consapevole, come si diceva un tempo, di essere troppo country per il
rock e troppo rock per il country. Insomma, il destino degli outsider.