Partiamo subito dal dato più interessante: questo
disco suona alla grande, sia in termini di arrangiamenti e qualità dei
musicisti, sia nella produzione, curata a Nashville da Thomas Dulin. Non
è una constatazione banale, per il semplice fatto che si tratta di un
album indipendente, ulteriore dimostrazione che quel divario, una volta
assai più netto, fra le cosiddette produzioni mainstream e tutto ciò
che resta, è andato nel tempo assotigliandosi, permettendo anche ad autori
giovani e sconosciuti di proporsi con credibilità. Se poi aggiungiamo
alla ricetta una bella voce e canzoni di buona fattura “neo-tradizionalista”,
ci rendiamo conto che Long Way From Home, debutto sulla
distanza di JD Clayton, è un disco che, pur senza rivoluzionare
alcunché all'interno di un genere, può giocarsela alla pari e superare
persino molta della paccottiglia che spesso viene spacciata oggi per country
music.
Con una breve introduzione acustica, Hello, Good Mornin’, che sembra
voler rassicurare sulle origini da folksinger di Clayton, ragazzo cresciuto
al confine tra Arkansas e Oklahoma in una piccola città fluviale, Long
Way From Home si proietta immediatamente nel suono country rock dai
forti accenti sudisti di American Millionaire,
tracciando un ideale ponte con musicisti come Chris Stapleton e Jason
Isbell, punte di diamante del movimento in questi anni. JD Clayton è l’ultimo
arrivato, deve farsi sicuramente le ossa, ma con un solo ep di debutto
alle spalle (Smoke out the Fire,2018), pare abbia già bruciato
le tappe, proponendosi adesso con uno stile definito che sa di lunghe
miglia percorse nel deep south e poi via verso l'Ovest, da qualche fra
Nashville, Memphis e Austin.
Figlio di un predicatore e di una pittrice, ha persino la biografia giusta
(tradizione da una parte, gesto artistico dall’altra) per convincere i
più scettici, ma potremmo anche limitarci soltanto alle canzoni di questo
album: scoppiettante in Beauty Queen,
classico in una ballata come Goldmine, un po’ country soul nella
stessa title track, quindi pronto a ingranare la marcia più elettrica
del southern rock in Heartaches After Heartbreak
e Cotton Candy Clouds, strizzando l’occhio ma senza
esagerare al sound accattivante dell’Americana moderna.
Come anticipato, i meriti di JD (che scrive bene e canta con altrettanta
convinzione) sono da dividere con la squadra messa insieme dal produttore,
che vede la presenza in studio di altri giovani talenti come quelli del
chitarrista Daniel
Donato, del jolly musicale Patrick Lyons (dalla pedal steel
all’armonica, passando per dobro, mandolino e banjo) e di Ben Alleman
al piano e organo. Sono loro a rendere spumeggianti le tracce del disco,
esaltando i toni romantici (Different Kind of Simple Life, la più
compiaciuta e furbesca fra le ballate in scaletta), quelli più agresti
(il finale con Sleepy Night in Nashville) e infine ridando una
spolverata alla famosa versione del traditional Midnight
Special proposta dai Creedence di John Fogerty, qui rivisitata
con un arrangiamento molto simile all’originale, dove risalta soprattutto
la performance vocale di JD.
Niente male per un ragazzo che aveva cominciato per scherzo ad esibirsi
su qualche palco, soltanto per pagarsi la retta all’University of Arkansas.