Songwriter, coltivatore, padre di famiglia (e con
figli a loro volta musicisti, nella Family Band che spesso lo ha affiancato),
un tempo anche attore in cerca di fortuna, Tim Grimm è un musicista
le cui vicende artistiche seguiamo con interesse da qualche anno, sempre
sottolineando l’integrità del suo gesto folk, il legame forte con l’America
rurale e con quel racconto che ha i suoi padri nobili nella canzone che
fu di Woody Guthrie e Ramblin’ Jack Elliott (con il quale, non a caso,
Tim ha stretto una lunga amicizia), John Prine e naturalmente Bob Dylan
e Townes Van Zandt. Le citazioni servono soltanto a inquadrare stile e
portamento delle canzoni di Grimm, a renderlo partecipe di un lungo fiume
che scorre nelle vene del cantautorato Usa, senza per questo volerne sminuire
l’efficaca con accostamenti che farebbero tremare le gambe a chiunque.
The Little In-Between è l’ultimo tassello in ordine di tempo
di questo mosaico, un album in buona parte composto da ballate country
folk austere e profonde, che sembra proseguire il discorso del celebrato
Gone,
quest’ultimo nato in tempo di pandemia e scomparse (anche di amici personali)
e che ci aveva colpito proprio per la sua intensità emotiva e poetica.
Qui i frutti non cadono distanti dall’albero principale, sebbene Tim Grimm
volga lo sguardo verso cenni più autobiografici, scorci della propria
vita e della proprie radici, dalle rievocazioni dei genitori nella title
track alla figura del padre in New Boots alla sua stessa carriera
in Twenty Years of Shadows, e naturalmene a quella fattoria tra
le colline dell’Indiana che ha dovuto adesso lasciare alla volta dell’Oklahoma
(The Leaving, The Breath of Burning)
e che rimane il piccolo angolo di mondo da cui osservare l’umanità intera
(I Don’t Know This World).
Nove ballate che parlano un linguaggio basilare, trattenuto nei suoni
e tutto concentrato sul binomio fra il picking acustico della chitarra
del protagonista e la voce stessa di Grimm, roca e densa nell’incedere,
anche se qualche volta troppo indulgente con l’idea che basti a sorreggere
tutta la casa. Fatta eccezione per una parca sezione ritmica, con la chitarra
elettrica e la pedal steel di Sergio Webb (già al fianco dello scomparso
David Olney, altro nome che viene facile accostare in questa sede), incise
a distanza negli studi di Jono Manson a Santa Fe, e qui presenti soltanto
in Lonesome All The Time e Twenty Years of Shadows, il resto
delle composizioni si mantiene nei binari di un country folk liricamente
intenso, che utilizza esclusivamente il violoncello di Alice Allen - il
cui contributo è stato registrato in Scozia - per sostenere la
forza del racconto musicale.
Avvolto in questa rigorosa introspezione acustica, The Little In-Between
è un disco che sembra avere scelto di far risaltare più i testi (e
in questo senso è meritoria più che mai l’edizione italiana proposta dall’Appaloosa
Records, con tutte le traduzioni a fianco degli originali) e meno
quegli spunti tra Americana e old time music che davano una certa vivacità
ad altri lavori di Tim Grimm. Tra la scura intensità e il tono minaccioso
di Stirrin’ Up Trouble e lo spiraglio
di luce e amore di Bigger Than the Sky, due chitarre in dialogo
e ancora l’ombra di John Prine a proteggerlo, Grimm ci accompagna in una
sorta di conversazione privata, alla quale servirebbe soltanto una maggiore
capacità di affabulazione musicale per coinvolgerci fino in fondo.