Che fossero tornati per restare, lo si era capito
da subito ma che i Chills versione ventunesimo secolo avessero
questa voglia e questa prolificità, inusuale persino nel loro periodo
aureo, non era affatto prevedibile. La loro idea era quella di provare
a recuperare il tempo perduto e in questa missione impossibile, questi
diversamente giovani neozelandesi di Dunedin ci stanno evidentemente mettendo
grande dedizione e tutto l’ardore di cui dispongono. Scatterbrain
è il nuovo album (il terzo dopo la reunion) e, almeno a livello concettuale,
non si discosta molto dai precedenti, rimanendo sul sentiero di un pop
wave scarsamente propenso ad ammodernamenti espressivi.
E questo incrollabile legame con il loro passato e con le trame che avevano
caratterizzato il Dunedin Sound, un jangle pop a basso costo di ispirazione
Byrdsiana, è la loro forza ed assieme il loro limite. Da un lato,
infatti, non c’è dubbio che la proposta dei Chills sia riconoscibilissima
se non persino unica nello scenario attuale, dall’altro è altrettanto
evidente che trattasi di qualcosa per il quale probabilmente è spirato
ormai il periodo di scadenza, tanto più se si considera che già all’epoca
il loro lavoro migliore (Submarine
Bells del 1990) era quasi fuori tempo massimo, dato alle stampe
quando l’ondata post-punk degli 80s era diventata quasi un rivolo. Al
di là dell’opinabile questione stilistica (riteniamo siano in tanti ancor
oggi ad apprezzare, giustamente, questo tipo di produzioni musicali),
il vero problema di Martin Phillipps, fondatore della band ed unico sopravvissuto
della formazione originaria, è più di sostanza che di forma (per quanto,
come spesso accade, la forma sia essa stessa sostanza). I brani, mediamente
carini e con qualche interessante sviluppo melodico, affidato, come sempre,
all’intreccio sonoro delle chitarre e delle tastiere, hanno comunque poco
di memorabile, musicalmente incapaci di svolgersi oltre la superficie
levigata sulla quale corrono, a volte eccessivamente cauti, a volte pomposi.
A manifestarsi, quale unico tangibile elemento di cambiamento, è invece
la volontà di abbandonare in via definitiva l’originario approccio lo-fi
e cercare di caratterizzare maggiormente il suono con l’ausilio dell’elettronica.
In questo quadro però quello che fondamentalmente manca è un reale pathos,
risultando tutto abbastanza tiepido e prevedibile. È pur vero che qualcosa
emerge e riesce a spezzare la linearità dell’album. Ci riferiamo a Caught
in My Eyes, buona prova d’autore, all’evocativa You’re
Immortal e, per altri versi, a Destiny e a Monolith,
primi singoli dell’album che rappresentano le due preminenti anime dei
Chills, rispettivamente quella popular folk e quella wave, unici “classici”
che potrebbero trovare spazio in un ipotetico “best of” del gruppo. A
ciò, volendo, potremmo aggiungere, quale ulteriore dato positivo, la bella
veste grafica e l’apprezzabile lavoro sulle liriche. Sempre pochino, ci
pare, per giustificare l’acquisto del disco.