Dell’album d’esordio di questa cantautrice di origini
australiane (Echo,
uscito appena un anno fa sempre per Sacred Bones), si era parlato parecchio.
Aveva colpito soprattutto la sua ben collaudata linea espressiva di chiara
matrice folk, legata ad una visione molto intimista e basilare della musica.
Partendo da queste premesse, è chiaro che l’annunciata collaborazione
in questo Hysteria di Aaron Dessner, membro fondatore dei
The National, aveva acceso tutte le lampadine, facendo prospettare l’uscita
di un album in grado di fondere le anime dei due artisti, votate all’essenzialità
delle forme ed alla ricerca di un mood sospeso ed aggraziato, in grado
di valorizzare la sottile introspezione che alimenta il processo creativo
di entrambi.
Purtroppo, come spesso accade, quando le aspettative diventano importanti,
il rischio delusione è dietro l’angolo. Ed è così che quello che è un
disco tutto sommato buono, finisce per essere archiviato, forse ingenerosamente,
alla voce “poteva essere meglio”. In realtà la scaletta iniziale afferma
un’idea perfettamente in linea con un progetto di valorizzazione dei talenti
di Indigo Sparke e di Aaron. Blue,
pezzo d’apertura del disco che, per quanto banale, non può non far venire
in mente Joni Mitchell, è il biglietto da visita che speravamo di vederci
consegnare. Tessuto sonoro austero, arrangiamenti minimali, raddoppio
della voce a rendere l’atmosfera più eterea, insomma l’armamentario completo
del miglior indie folk di ultima generazione. Il successivo brano omonimo,
viaggia ugualmente su livelli d’eccellenza, qui i richiami alla citata
madrina canadese si fanno davvero pregnanti ed il lavoro di produzione
emerge con discrezione grazie all’intuizione di intrecciare la ritmica
affidata alla chitarra acustica, a delle trame in stile Lanois. Pressure
in My Chest gode sempre di una musicalità fluida, accentuata dall’eleganza
di suoni liquidi che permeano i brevi assolo e che sembrano riproporre
lo stesso effetto scenico rinvenibile, ad esempio, in un album come Disintegration
dei Cure.
A fronte di questo avvio scoppiettante, il disco prosegue via via perdendo
colpi. Non cambiano gli schemi ma muta l’impatto emozionale. Qualche sviluppo
jazzy (Pluto), qualche ulteriore interessante intuizione (Why
Do You Lie? e Time Gets Eaten), un finale pop con le giuste
coordinate (Burn) ma, in generale, tra divagazioni, opinabili tentativi
di aprire la scena e canzoni non troppo solide sotto il profilo melodico,
il risultato si perde per strada. A non cambiare però è soprattutto la
voce di Indigo che, forse a causa della staticità interpretativa, risulta
spesso persino monocromatica. Nessun concreto aiuto peraltro le giunge
neppure dagli altri musicisti coinvolti. Shahzad Ismaily e Matt Barrick
(Walkmen e Muzz) fanno il loro, bene, ma danno la sensazione di aggiungere
poco al progetto.
Appurato che Indigo, almeno per il momento, non è Laura Marling, giusto
per citare una di quelle brave, non resta che tenersi ben stretto la parte
buona di questo Hysteria e aspettare con rinnovata fiducia i prossimi
passi.