Alla veneranda età di ottantotto anni Shirley
Collins non pare avere alcuna intenzione di andare in pensione, in
primis perché non ci si può mettere in quiescenza da qualcosa che più
che a un lavoro somiglia a una ragione di vita e poi perché evidentemente
alla nostra anziana signora del Sussex i panni della folk singer ancora
calzano benissimo. In realtà, la sua visione integralista della tradizione,
esibita sin dagli esordi e acuita nella fase d’invecchiamento, l’hanno
fatta assurgere ad autentica icona della musica roots britannica.
Certo, erano in molti a credere che il precedente Heart's
Ease del 2020, felice seguito di Lodestar, l’album che l’ha
rimessa in pista dopo oltre 40 anni di silenzio, fosse da considerare
la sua ultima apparizione discografica, ma se si considera che Archangel
Hill è appena il tredicesimo album solista in oltre 60 anni di
carriera (ai quali vanno aggiunti pochi altri titoli dati alle stampe
in collaborazione soprattutto con la sorella Dolly), probabilmente il
vero elemento di sorpresa è piuttosto da ricercare nel breve lasso di
tempo intercorso tra i due ultimi dischi. Inaspettato o meno, questo lavoro
è un piccolo capolavoro che, al di là dell’unicità espressiva e dell’indubbia
valenza estetica, produce un particolare impatto didascalico, al punto
da poter essere offerto alle nuove generazioni alla stregua di un testo
di etnomusicologia. E se è vero che le contaminazioni possono servire
a tenere viva l’eredità dei padri e renderla più accessibile ai giovani,
è altrettanto vero che, come piaceva dire al compianto Paddy Moloney (The
Chieftains), la tradizione è tradizione, è un linguaggio che va acquisito
col tempo e richiede rispetto, regole e conoscenze, tutti elementi rinvenibili
nel bagaglio culturale della nostra artista che la materia ha iniziato
a trattarla fin da ragazzina.
Archangel Hill è quindi merce rara. Shirley riparte ovviamente
dal passato, senza fronzoli e con stile asciutto, rappresentando lei stessa
un classico. Coltiva con intatta eleganza il gusto della narrazione, attingendo
dal songbook degli avi, dalle opere letterarie di alcuni dei suoi scrittori
preferiti, aggiungendo qualche passaggio ispirato dal suo libro “America
Over the Water” (High and Away brano il cui testo in realtà è scritto
dal suo collaboratore Pip Barnes) ed esibendo una voce consumata dal peso
degli anni, ruvida ma, proprio per questo, dal fascino antico. Quelle
che canta non sono canzoni vecchie, sono vecchie canzoni, magiche canzoni
folk che riprendono forma e godono della grazia delle sue interpretazioni
e dell’autenticità del suo stile. Brani che usufruiscono peraltro del
supporto di Ian Kearey (produttore), del già citato Pip Barners e di Dave
Arthur e Pete Cooper, musicisti della Lodestar Band, tutti impegnati a
dare una mano anche nella cura degli arrangiamenti di questo disco, che
si nutre di ricordi (la dedica è al patrigno Bill), di terra e di amore.
In un mondo che sembra non avere tempo per porre uno sguardo al passato,
il richiamo alla storia e alle radici, in un’ottica suggestiva e naturalistica,
è un regalo che dovremmo tutti cogliere, ringraziando e portando grande
rispetto a chi come Shirley incarna ancora l’anima più vera di un’umanità
da riconvertire all’essenza della vita e dell’arte.