Sta diventando ormai un appuntamento fisso quello
con le uscite discografiche dei Mountain Goats. Con cadenza pressochè
annuale ci si ritrova tra le mani un nuovo album del gruppo californiano
e puntualmente viene da chiedersi se John Darnielle sia riuscito, una
volta ancora, a tenere alto il livello della sua proposta musicale. Diciamo
la verità, una “obbligazione di risultato” può andar bene per un professionista
che tutte le mattine fa le sue ore di lavoro e rispetta tempistiche e
schemi prefissati, non per chi debba cimentarsi nel campo delle arti e
fare costantemente i conti con la propria ispirazione.
Pubblicare sette dischi negli ultimi sette anni sa di routine, il che
dovrebbe fisiologicamente produrre una certa stagnazione di idee e richiedere,
di conseguenza, tanto “mestiere”. Il rischio concreto, a meno di parlare
di geni in prolungato stato di grazia, è quello di trovarsi al cospetto
di musicisti che in realtà hanno poco di nuovo da dire e che scadono così
nell’autoreferenzialità o, peggio, nella ripetitività di modelli ormai
consunti. Orbene, dopo gli ottimi Getting
Into Knives e Dark in
Here e l’ancor buono Bleed
Out, ecco affiorare i primi sintomi di stanchezza creativa.
Jenny From Thebes già a primo impatto non pare brillare per originalità
ed ambizione, trattandosi del sequel di All Heil West Texas, disco
del 2002 uscito a nome Mountain Goats ma frutto del lavoro del solo John
Darnielle. Nulla quindi, neppure sulla carta, in grado di rinverdire il
progetto. Vero che spesso bisogna tornare indietro per riprendere ad avanzare,
ma nel nostro caso la rielaborazione attiene più ai temi letterari sottesi
al vecchio disegno, attestati dalla presenza degli stessi personaggi e
dello stesso stile narrativo, che all’aspetto strettamente musicale, in
continuità invece con il nuovo corso.
L’album ad essere onesti è comunque godibile. Presenta la solita linearità
e pulizia di suoni tra modernismi e tradizione, anche se la maggior parte
dei brani sono più inclini a cedere alle luminescenze pop ed alle geometrie
soul che ai dettami della roots music e della west coast dei sixties o
alle raffinatezze di quella specie di prog-folk rintracciabile nei citati
lavori. Nulla di grave di per sé, non fosse che questo scintillare di
fiati e di archi pare rendersi spesso necessario proprio per sopperire
alla carenza di giuste intuizioni melodiche che, anche dove non latiti
del tutto, viene comunque soffocata proprio da una produzione eccessivamente
opulenta, affidata a Trina Shoemaker, accreditata di ben due Grammy per
The Globe Sessions di Sheryl Crow.
Così pure i migliori episodi come Clean State
e Ground Level o Fresh Tatoosono
travolti da questo vortice sonoro che finisce per far maggiormente apprezzare
passaggi come la ruvida Murder at the 18th St.
Garage, resa più interessante grazie a un uso meno scenografico
degli strumenti o come le due ballad From the Nebraska Plant e
Water Tower, che brillano semplicemente
per la loro normalità. Sarà pure che doveva venir fuori un “musical moderno”,
come dicono le note stampa, con al centro la storia di Jenny, guerriera
e ladra in fuga da “qualcosa di brutto” e, al contempo, “la storia sull'individuo
e sulla società, sulla sicurezza, sul riparo e su coloro che scelgono
di fornire assistenza quando nessun altro lo fa”, ma ciò non toglie che
era lecito aspettarsi da un autore del livello di John Darnielle,
qualcosa di più stimolante e più coraggioso, qualcosa che avrebbe richiesto
probabilmente più tempo, giusto quello necessario ad abbandonare le trame
pregresse e mettersi, in posizione più scomoda, ad inquadrare le cose
da prospettive inedite.