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The Mountain Goats
Jenny from Thebes
[Merge Records/ Goodfellas 2023]

Sulla rete: mountain-goats.com

File Under: John Darnielle's rock opera


di Domenigo Grio (27/10/2023)

Sta diventando ormai un appuntamento fisso quello con le uscite discografiche dei Mountain Goats. Con cadenza pressochè annuale ci si ritrova tra le mani un nuovo album del gruppo californiano e puntualmente viene da chiedersi se John Darnielle sia riuscito, una volta ancora, a tenere alto il livello della sua proposta musicale. Diciamo la verità, una “obbligazione di risultato” può andar bene per un professionista che tutte le mattine fa le sue ore di lavoro e rispetta tempistiche e schemi prefissati, non per chi debba cimentarsi nel campo delle arti e fare costantemente i conti con la propria ispirazione.

Pubblicare sette dischi negli ultimi sette anni sa di routine, il che dovrebbe fisiologicamente produrre una certa stagnazione di idee e richiedere, di conseguenza, tanto “mestiere”. Il rischio concreto, a meno di parlare di geni in prolungato stato di grazia, è quello di trovarsi al cospetto di musicisti che in realtà hanno poco di nuovo da dire e che scadono così nell’autoreferenzialità o, peggio, nella ripetitività di modelli ormai consunti. Orbene, dopo gli ottimi Getting Into Knives e Dark in Here e l’ancor buono Bleed Out, ecco affiorare i primi sintomi di stanchezza creativa. Jenny From Thebes già a primo impatto non pare brillare per originalità ed ambizione, trattandosi del sequel di All Heil West Texas, disco del 2002 uscito a nome Mountain Goats ma frutto del lavoro del solo John Darnielle. Nulla quindi, neppure sulla carta, in grado di rinverdire il progetto. Vero che spesso bisogna tornare indietro per riprendere ad avanzare, ma nel nostro caso la rielaborazione attiene più ai temi letterari sottesi al vecchio disegno, attestati dalla presenza degli stessi personaggi e dello stesso stile narrativo, che all’aspetto strettamente musicale, in continuità invece con il nuovo corso.

L’album ad essere onesti è comunque godibile. Presenta la solita linearità e pulizia di suoni tra modernismi e tradizione, anche se la maggior parte dei brani sono più inclini a cedere alle luminescenze pop ed alle geometrie soul che ai dettami della roots music e della west coast dei sixties o alle raffinatezze di quella specie di prog-folk rintracciabile nei citati lavori. Nulla di grave di per sé, non fosse che questo scintillare di fiati e di archi pare rendersi spesso necessario proprio per sopperire alla carenza di giuste intuizioni melodiche che, anche dove non latiti del tutto, viene comunque soffocata proprio da una produzione eccessivamente opulenta, affidata a Trina Shoemaker, accreditata di ben due Grammy per The Globe Sessions di Sheryl Crow.

Così pure i migliori episodi come Clean State e Ground Level o Fresh Tatoo sono travolti da questo vortice sonoro che finisce per far maggiormente apprezzare passaggi come la ruvida Murder at the 18th St. Garage, resa più interessante grazie a un uso meno scenografico degli strumenti o come le due ballad From the Nebraska Plant e Water Tower, che brillano semplicemente per la loro normalità. Sarà pure che doveva venir fuori un “musical moderno”, come dicono le note stampa, con al centro la storia di Jenny, guerriera e ladra in fuga da “qualcosa di brutto” e, al contempo, “la storia sull'individuo e sulla società, sulla sicurezza, sul riparo e su coloro che scelgono di fornire assistenza quando nessun altro lo fa”, ma ciò non toglie che era lecito aspettarsi da un autore del livello di John Darnielle, qualcosa di più stimolante e più coraggioso, qualcosa che avrebbe richiesto probabilmente più tempo, giusto quello necessario ad abbandonare le trame pregresse e mettersi, in posizione più scomoda, ad inquadrare le cose da prospettive inedite.


    


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