L’eclettismo non sempre è un vantaggio in musica,
al netto di tutte le legittime ambizioni di un musicista. Sulla carta
è certamente la via maestra per far esplodere l’espressività di un artista,
garantendogli originalità e coraggio di cambiare, ma qualche volta l’adagio
“less is more” ha un senso, soprattutto se riferito all’ambito della canzone
d’autore. L’impressione è che Amos Lee - voce soul di velluto e
scrittura musicale che si muove con sensibilità e mestiere tra radici
folk e struttura pop rock più moderna - si sia complicato un po’ la vita
con il suo ritorno indipendente di Transmissions.
Primo album di materiale originale dal 2022 (Dreamland), al quale
hanno fatto seguito un paio di operazioni tributo interlocutorie (gli
omaggi al songbook di Chet Baker e Lucinda
Williams, ulteriore dimostrazione della versatilità del musicista
di Philadelphia), Transmissions è stato registrato nell’arco di
una sola settimana nello studio casalingo del batterista Lee Falco, a
Marlboro, stato di New York. La quiete della campagna, la ricerca della
spontaneità con la band (la stessa che lo accompagna in tour), la partecipazione
di musicisti di qualità come Greg Leisz (lap e pedal steel), tutto lasciava
presagire un disco più sobrio e concentrato sulla densità del sonwgriting,
come paraltro annuncia una meditabonda Built
to Fall, dallo scorrere “dylaniano”, in apertura. Invece, strada
facendo Transmissions si fa più svagato, provando molte, troppe
strade, non tutte centrate, confermando l’idea che Amos Lee, dagli esordi
prestigiosi per il marchio Blue Note alla maturità di album quali Mission
Bell e Mountains of Sorrow, Rivers of Song, abbia in seguito
perso un poco la bussola.
Qui costruisce una prima parte efficace che oscilla fra trame americana
e limpidezza folk in Beautiful Day e Carry
You On, formando un trittico iniziale promettente, che amplifica
il messaggio d’amore universale che Transmissions sembra voler
comunicare di fronte a un mondo al collasso, salvo tentare poi un approccio
più carico di suoni e ammiccamenti pop che in Hold On Tight, nell’enfatica
Madison e in Darkest Places finisce per spostare il peso
specifico dell’intero album dall’intimità delle liriche alla ricchezza
degli arrangiamenti, non sempre guadagnandoci. Non si tratta di canzoni
imperfette, semmai del contrario, di un filo di manierismo sonoro che
toglie intensità anche all’interprete, sulla cui delicatezza al canto
non vale la pena ripetersi (Keep on Moving, Lucky
Ones), ma qui trascinato anche dalla scelta, poco comprensibile,
di concentrare nella seconda parte di Trasmissions tutti gli episodi
più acustici, fino a farsi impalpabile nel dittico formato da When
You Go e Baby Pictures. Quando la stessa Trasmissions
saluta con la chiarezza delle chitarre acustiche abbiamo ormai abbandonato
da tempo la speranza di un sussulto.