I Buffalo Tom sono uno dei gruppi più sottovalutati
della storia del rock degli ultimi decenni. Hanno sì goduto di un discreto
successo ma nulla di adeguato, a nostro umile parere, al loro effettivo
valore, oscurati, agli esordi, dai conterranei Pixies e Dinosaur Jr, ai
quali pure erano “spiritualmente” affini, e soverchiati, nel loro momento
di massimo fulgore creativo, dall’ondata grunge. La cosa, a dire il vero,
non pare averli mai particolarmente condizionati, tant’è che hanno fatto
sempre molto poco per tentare di uscire dal limbo dei “bravi ma c’è di
meglio” e anche quando, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio,
la loro storia sembrava giunta al capolinea, il loro (ottimo) ritorno
alle scene non ha previsto alcun tipo di stravolgimento, sia a livello
di line-up che sotto il profilo espressivo.
Un nuovo inizio il loro, in cui il sound ha oramai acquisito il carattere
della classicità, snodato all’interno di un impianto sempre rumoroso,
elettrico, robusto ma, quale inevitabile evoluzione stilistica, privo
dell’aspra irruenza giovanile. Il fragore di Birdbrain (1990) e
l’alt-country ad alta intensità di Let Me Come Over (1992), vale
a dire il meglio della loro prima produzione, non sono affatto spariti
ma si sono ricomposti all’interno di strutture decisamente meno acide.
Un po' come se ai loro originari schemi, in debito di idee con gli Uncle
Tupelo di Still Feel Gone, gli Husker Du di Warehouse: Songs
and Stories e i Dinosaur Jr di Bug, si sia aggiunto il più
docile gusto melodico di Adam Duritz. Jump Rope è l’ennesima
dimostrazione di quanto appena spiegato, un altro tassello coerente con
la loro vicenda ma anche l’ulteriore e convinto sviluppo di trame più
soffici, più intellegibili e brillantemente lineari.
Forse, dopo il variegato Skins
(2011), la prova più convincente del loro nuovo corso, questo è l’album
in cui, sia pure levigando tanto la superficie, si è maggiormente ampliata
la gamma cromatica, rifuggendo decisamente dall’asfittica riproposizione
di modelli e dall’aprioristica rinuncia alle soluzioni più “moderne”.
Non parliamo certo di esperimenti o di trovate ad effetto (e meno male)
ma della capacità di Bill Janovitz e soci di scrivere belle canzoni
e di cercare costantemente i colori più adatti per far brillare le loro
intuizioni musicali. Si accentua così la loro attitudine acustica e la
loro anima più folk (Our Poverty o You’re On), già parsimoniosamente
esibita ed esplode il loro incondizionato amore per i Byrds, per la psichedelia
e per sixties in genere. Gli esempi al riguardo si sprecano: da Pine
For You a Little Ghostmaker, da Compromised a Why’d
You Have to Be Like That, fino al riff scintillante di New
Girl Singing ed ai coretti innestati nei passaggi cadenzati
di Rifled Through.
Non manca il pezzo più radiofonico (Helmet) e qualche fulgida ballad
rock d’autore (Autumn Letter o The
Belle of Borderline Dismay), così come ci piace citare la presenza
di In the Summertime, che è un brano
pop, pensato, cantato ed arrangiato come un brano pop, che ha il pregio
di suonare molto gradevole senza squalificare i nostri tre del Massachusetts,
ma ha il difetto di lasciarci con l’atroce dubbio di doverci quanto prima,
ed in maniera irreversibile, scodare dei Buffalo Tom del passato remoto,
del passato prossimo e persino di quelli di questo buonissimo loro ultimo
lavoro.
Prodotto da Dave Minehan e mixato da John Agnello, Jump Rope è
in fin dei conti un disco di americana, di una vera band americana, immersa
nella vita e nei suoni della provincia americana e non è un caso che in
copertina ci sia un’immagine del fotografo di strada Mark Cohen, ambientata
nella Pennsylvania rurale, che riflette, come dicono le note stampa, proprio
la malinconia rurale americana.