La storia è di quelle che si sono raccontate mille
volte nelle riviste che si occupano di gruppi musicali, una band parte
per amicizia fin dai banchi di scuola, arriva a farsi conoscere, ma proprio
quando il momento pare quello d’oro, qualcosa si incrina, per poi rompersi
in uno scioglimento o un abbandono pesante che interrompe la favola. In
pochi scommettevano sul futuro dei Midlake nel 2012 quando il cantante
e tastierista Tim Smith (e soprattutto unico autore dei brani fino
a quel momento, da non confondere con il da poco scomparso vocalist dei
Cardiacs) ha lasciato il gruppo a registrazioni del quarto album già iniziate.
Eppure, i suoi compagni hanno comunque portato a termine il lavoro (facendo
uscire il più che dignitoso Antiphon nel 2013), e, soprattutto,
nel 2022 sono tornati con il disco For
the Sake of Bethel Woods, dimostrando che, dopo averci pensato un
po’, la sigla non meritasse di morire così presto.
Smith aveva lasciato la barca proprio quando stava andando fortissima,
con due album giustamente osannati dalla critica (The Trials of Van
Occupanther e The
Courage of Others), e soprattutto dopo il contributo decisivo dato
al fortunatissimo Queen of Denmark di John Grant. E lo ha fatto
dando poche spiegazioni, e per giunta quasi scomparendo dalla circolazione.
Per tale motivo possiamo ben dire che questo Albion, suo
primo album mezzo-solista pubblicato con il moniker Harp che comprende
anche la moglie e collaboratrice Kathi Zung, è un disco che in molti hanno
atteso, con grandi aspettative che francamente non so quanto siano state
rispettate. La voce è ancora quella celestiale che ricordavamo, e la mano
felice a scrivere melodie sognanti e perfettamente costruite non sembra
affatto arrugginita, come dimostrano bellissime canzoni come I
Am The Seed o Silver Wings.
Ma qualche perplessità la esprimiamo sulla parte di produzione e arrangiamenti,
tutti basati su una tastiera che insegue gli anni ’80 a metà tra il dream
pop dei Cocteau Twins nel migliore dei casi (che sono davvero la prima
band a cui pensi ascoltando il disco), e certo pop di atmosfera di quela
stagione. Gli fa da contraltare una chitarra che insiste in un arpeggio
ipnotico, impantanandosi anche un po’ nella ripetitività, il che rende
l’impianto sonoro del disco un po’ monocorde, e alla fine in certi momenti,
tra piccoli strumentali quasi new age e suoni molto cristallini, più che
ai Cocteau Twins pensi quasi ai levigatissimi Clannad, sempre degli anni
80. Peccato perché dal punto di vista della scrittura Smith ha ampliato
la gamma espressiva includendo anche un tono vagamente acid-folk alla
Roy Harper, e i testi sono anche più elaborati della media nel sondare
le fragilità umane, ma la sensazione è che nell’inevitabile confronto
con i suoi vecchi compagni di strada, ad averci perso nel divorzio al
momento pare sia proprio lui. Il suo vantaggio è che però ha appena iniziato,
e ha davanti una strada ancora lunga.