Quattro anni di pausa sono serviti forse a riorganizzare
idee e obiettivi per la band canadese di Halifax, tra i nomi più interessanti
emersi nell’ultimo decennio in quel mondo di confine tra sensibilità rock
d’autore e suoni “indie” che attingevano a una lunga tradizione di bassa
fedeltà e pop sghembo e stralunato. Certamente il segnale del ritorno
all’ovile, con il nuovo album pubblicato per l’etichetta che aveva contribuito
a lanciarli anche sul mercato americano, la Paradise of Bachelors, è già
indice di un ripensamento rispetto alle ambizioni sonore del predecessore,
Snapshot of a Beginner,
formalmente il loro album più curato, lontano dalla poetica arruffata
degli esordi. Qualcuno non aveva gradito, la mossa era sicuramente azzardata
sebbene coraggiosa in alcuni passaggi compositivi, ed evidendemente The
Neon Gate è qui per aggiustare di poco la mira.
Nigel Chapman, anima pensante dei Nap Eyes, deve avere reagito
in direzione opposta, tornando sui passi di una certa “trascuratezza”
del sound, non rinunciando però ai continui excursus filosofici ed esistenziali
che attraversano le sue liriche, uno dei punti di fascino del gruppo.
La voce indolente così caratteristica di Chapman, con quella cadenza “loureediana”
che non si cancella mai, è la chiave di volta per dare sfogo a una manciata
di canzoni minimaliste negli arrangiamenti, spesso scandite da ritmiche
scheletriche e loop elettronici, creando lunghe litanie che nella prima
parte del disco superano spesso i sei minuti e sfriorano persino gli otto
nel brano finale.
Il risultato è a tratti estenuante e i monologhi solipsistici del nostro
Nigel non sempre riescono a tenere alta l’attenzione, nonostante le chitarre
dal vago sentore psichedelico di Brad Loughead provino talvolta a infiltrare
le melodie essenziali di questi brani. A riprova della tendenza un po’
snervante di Chapman ci sono due episodi che hanno l’ardire di rivisitare
componimenti poetici rispettivamente di W.B. Yeats (l’estesa I See
Phantoms of Hatred and of the Heart’s Fullness and of the Coming Emptines,
sorta di canzone fantasma, con agganci al jangle pop inglese degli 80s)
e Alexander Pushkin (Demons, più prevedibile, almeno nei temini
dello stile musicale, per gli stessi Nap Eyes).
Anche ciò che rimane ruota intorno a questa apatia folk rock che in Passageway
ricorda da vicino la pigrizia del migliore Jeff Tweedy, da solista più
che nei Wilco. E l’impressione è che anche The Neon Gate sia appunto
più opera delle meditazioni dello stesso Nigel Chapman, rispetto invece
a una band sacrificata nel suo ruolo: Dark Mistery Enigma Bird
e Feline Wave Race (con curiosi riferimenti alla cultura dei videogiochi),
per esempio, avanzano su ritmiche glaciali, facendo incontrare sintetizzatori
e folk da cameretta, ma ransentando anche un senso di noia, accentuato
dall’estrema lungaggine. Peccato perché l’apertura con Eight
Tired Starling lasciava presagire ben altre fascinazioni (non
ripetute, purtroppo) su una linea arpeggiata e folkie che si impone davvero
come l’ideale compendio al flusso di coscienza del cantante.
Non è un caso allora che i momenti che maggiormente si fanno preferireall’interno
di The Neon Gate siano le chitarre acidule che calcano il ritmo
essenziale di Tangent Dissolve o quelle
più travolgenti e rock di Ice Grass Underpass,
unico scatto di nervosismo dell’album, e infine la chiusura di Isolation,
che si trascina sorniona con le sue chitarre elettriche opalescenti alla
Wilco e uno stridore di psichedelia in coda.