Non mandava segnali artistici da quasi sei anni
Phosphorescent, pseudonimo dietro il quale si cela da due decenni
il songwriting di Matthew Houck, musicista originario di Athens, Georgia,
che ha diviso la sua ispirazione fra i poli di New York e Nashville, quest’ultima
la città che lo ha accolto e dove attualmente Houck risiede e incide nel
suo studio personale. D’altronde non si è mai mosso frettolosamente il
nostro protagonista, tanto è vero che anche dopo gli apprezzamenti generali
ottenuti con Muchacho, ancora
oggi il suo album più rappresentativo, aveva atteso altri cinque anni
per dare alle stampe C’est
la Vie, disco di compromesso fra passato e presente dal punto di vista
stilitisco, un po’ irrisolto o forse soltanto troppo ambizioso nei suoni
perché i singoli pezzi del puzzle musicale riuscissero a incastrarsi alla
perfezione.
Non a caso la prima impressione che restituisce Revelator,
titolo dall’afflato spirituale, è quella di un parziale ritorno a casa,
di un recupero di certa “cosmica americana” che ammantava il citato Muchacho,
così come l’opera precedente di Phosphorescent, dal bucolico Here’s
To Taking It Easy fino al palese omaggio contenuto in To Willie,
tributo sui generis all’icona americana Willie Nelson. Non cadiano esattamente
in territori “tradizionalisti”, eppure Revelator subisce in modo
implicito l’influsso di Nashville dentro una serie di canzoni che incorporano
una strumentazione per così dire classica, con chitarre, piano, organo
e soprattutto la liquida pedal steel di Ricky Ray Jackson, accostata ai
drappi di sintetizzatori e al leggero manto di archi che spesso avvolgono
e letteralmente intontiscono il sound della raccolta.
A dare manforte a questa soluzione ci sono le collaborazioni di musicisti
importanti come Jack Lawrence (basso, già con Raconteurs e Dead Weathers),
Jim White (batterista dei Dirty Three), William Tyler (chitarre) e Jo
Schornikow (accordion, organo, piano Wurlitzer, sintetizzatore) quest’ultima
compagna dello stesso Houck, che firma il brano The World is Ending.
Che tutto ciò restituisca un nuovo inizio alla voce di Phosphorescent
pare evidente fin dalle note della title track, la canzone che, per ammissione
dello stesso Matthew Houck, ha dato il via all’intero progetto, delineandone
forma e sostanza, molto intime e delicate come il canto di Phosphorescent,
il quale si lascia cullare dalle onde di una sorta di etereo "indie
country", se concedete la bizzarra definizione.
Fragile, umano, a tratti languido e stupefatto fino all’eccesso, Revelator
è un disco che cerca conforto proprio nel suo procedere pacifico, tra
i sospiri di Fences, il dilatarsi di Wide as Heaven, la
grandeur sonica di To Get It Right, qualche volta nutrendosi di
una patina gospel moderna, altre portando l’Americana a spasso per le
praterie di una inebetita psichedelia country, da cui sbucano nenie come
Impossible House e moine roots quali All the Same, per non
dire di un’eccentrica A Moon Behind the Clouds che pare una
Sweet Jane apocrifa concepita ai Caraibi.
Più uniforme melodicamente e al tempo stesso meno avventuroso del suo
predecessore, Revelator ci riconsegna la dimensione migliore dell’autore
Phosphorescent, quello di cui ci eravamo invaghiti qualche stagione addietro.