I giapponesi avranno molti difetti (non ultimo un premier
reo d'aver inciso il peggior disco di cover da Elvis che si possa immaginare),
ma quando si tratta di curare un po' il patrimonio sterminato della musica d'autore
nordamericana, be', dobbiamo ammettere che ci sanno fare. E' grazie alle loro
ristampe, infatti, che in questi giorni sono tornati a circolare anche in Italia
due album di quello che a buona ragione potremmo definire un blues-rocker di culto,
visto che, al di là di un breve momento di notorietà durante gli anni '70, sfido
parecchi a contestualizzare il nome del texano Marc Benno oltre la fumosa
genericità del "sentito dire". Cresciuto nella periferia di Dallas verso la fine
dei fifties, Benno sviluppa le proprie inclinazioni grazie al sostegno di un padre
illuminato e appassionato, che non solo lo accompagna agli innumerevoli concerti
da sempre in cartellone nel "Lone Star State", ma lo incoraggia a formarsi una
cultura musicale dove il secco folk-blues di Lightnin' Hopkins e Mance Lipscomb
si accompagna ai velluti soul di Sam Cooke, la trascinante presenza scenica di
Elvis Presley al disadorno rigore del country delle origini. Dopo averne consumato
avidamente le gesta on stage, Benno si aggrega al carrozzone di Leon Russell
(col quale inciderà due ottimi album a nome The Asylum Choir tra il '68 e il '71):
è in questo contesto che il nostro ha occasione di stringere alcune amicizie importati,
prima fra tutte quella col compianto Stevie Ray Vaughan, e di inserirsi
per la prima volta nel music-biz a un livello professionale. Prima di comparire
negli album di Rita Coolidge e José Feliciano, e soprattutto prima di affrescare
a tinte bluesy l'intero L.A. Woman dei Doors, Benno tenta la carta solista presso
casa A&M con un album omonimo targato 1970 che gli fa guadagnare stima e una certa
reputazione Sulla falsariga, e sulle medesime coordinate
soliste si muove anche il successivo Minnows, sorta di piacevolissimo
"James Taylor gone blues" in cui magari, rispetto agli altri lavori dell'autore,
la componente texicana risulta meno marcata. Disco variegato, talvolta volutamente
sottotono e comunque sempre efficace nel dare risalto al profilo più intimista
della scrittura di Benno, Minnows è gratificato dalla presenza di numerosi sidekicks
di gran lusso: l'ex-Byrd Clarence White, lo "Stones-fella" Jesse Ed
Davis e il pupillo di Sam Cooke Bobby Womack alle chitarre, Gary
Illingsworth all'organo, nonché l'inossidabile Jim Keltner (ribattezzato
"Jimmie Lee") ai tamburi. Con simili partners in crime è ben difficile sbagliare
anche un sol colpo, e difatti Benno convince sia nel pop-rock agrodolce di Franny
o Speak Your Mind sia negli episodi più strettamente blues: ammorbidito
da carezze soul quello di Put A Little Love In My Soul, caracollante e
ipnotico alla maniera di John Lee Hooker in Stone Cottage, "chicagoano"
al midollo nella spettacolare Baby I Like You (laddove Back Down Home
suona squisitamente texana), elettrico e nervoso come un serpente in Baby
I Love You. Non si può dire, inoltre, che il country-folk di Good Times,
le stucchevolezze alla Graham Nash di Before I Go o l'esperimento trippy
della conclusiva Don't Let The Sun Go Down dispiacciano tout-court, tuttavia
ancora oggi non sembrano poi particolarmente rappresentative della cifra più personale
dell'artista. Cifra stilistica, questa, che dopo
il discreto Ambush del 1973 raggiunge il proprio zenith nel capolavoro Lost
In Austin di 6 anni posteriore, uno dei gioielli misconosciuti dell'intera
decade. Tutto è perfetto nell'album, dal songwriting di Benno, che non sarà mai
più così ispirato, all'interplay della sua chitarra con quelle di Albert Lee
e Eric Clapton (nientemeno!), dalla sezione ritmica ora discreta ora scalmanata
di Jim Keltner e Carl Radle alle tastiere mai invadenti di Dick Sims
(dal gruppo dello stesso Clapton), per finire col sax randagio di Dickie Morresey
e senza dimenticare un'eminenza grigia dello spessore di Glyn Johns in
cabina di regia. Impossibile, per l'ennesima volta, restare indifferenti di fronte
alla superba slide che incornicia l'intreccio delle ritmiche nella travolgente
Hotfoot Blues, impossibile non commuoversi riascoltando una ballata tra
rock e country semplicemente perfetta come Chasin' Rainbows. Il blues domina
la scena nella roccata Me & A Friend Of Mine, nel passo notturno di Monterrey
Pen e nell'ilare boogie di Last Train, mentre altrove i contorni sono
più sfumati. New Romance, per esempio, con quell'organo che punta dritto
allo stomaco, potrebbe essere una bellissima canzone di Jimmy Webb in vena d'asciuttezze;
il ruvido laid-back della title-track non si faticherebbe a crederlo sfuggito
di mano a JJ Cale in un momento di distrazione. Invece è tutta farina del sacco
di Marc Benno, che sa inventarsi anche la nostalgia rockabilly di Splish Splash
e il sanguigno rock-blues sudista della devastante The Drifter. Splendido,
poi, è il country-rock festaiolo di Hey There Senorita, che riaccende il
rimpianto per un grandissimo musicista le cui potenzialità non hanno forse potuto
esprimersi appieno. Nonostante l'oggidì impensabile solidarietà di una major,
la carriera di Benno si interrompe bruscamente fino al 1990, anno del discreto
comeback su Sky Ranch Take It Back To Texas. Da allora, una mezza dozzina di album,
il pellegrinaggio presso etichette - Provogue, Del Mar, l'autogestita Marno (MARc
benNO) - sempre più microscopiche, la comparsata in un tributo a Robert Johnsons
e pochi segnali confortanti circa il ritorno alla forma di due decadi fa. Come
si dice? "Solita vecchia storia"? Già, proprio così (Gianfranco Callieri)
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