Marc Benno "Texas cult hero"
      
 
Marc Benno Minnows (A&M, 1971) 1/2
Marc Benno Lost In Austin (A&M 1979)
 

I giapponesi avranno molti difetti (non ultimo un premier reo d'aver inciso il peggior disco di cover da Elvis che si possa immaginare), ma quando si tratta di curare un po' il patrimonio sterminato della musica d'autore nordamericana, be', dobbiamo ammettere che ci sanno fare. E' grazie alle loro ristampe, infatti, che in questi giorni sono tornati a circolare anche in Italia due album di quello che a buona ragione potremmo definire un blues-rocker di culto, visto che, al di là di un breve momento di notorietà durante gli anni '70, sfido parecchi a contestualizzare il nome del texano Marc Benno oltre la fumosa genericità del "sentito dire". Cresciuto nella periferia di Dallas verso la fine dei fifties, Benno sviluppa le proprie inclinazioni grazie al sostegno di un padre illuminato e appassionato, che non solo lo accompagna agli innumerevoli concerti da sempre in cartellone nel "Lone Star State", ma lo incoraggia a formarsi una cultura musicale dove il secco folk-blues di Lightnin' Hopkins e Mance Lipscomb si accompagna ai velluti soul di Sam Cooke, la trascinante presenza scenica di Elvis Presley al disadorno rigore del country delle origini. Dopo averne consumato avidamente le gesta on stage, Benno si aggrega al carrozzone di Leon Russell (col quale inciderà due ottimi album a nome The Asylum Choir tra il '68 e il '71): è in questo contesto che il nostro ha occasione di stringere alcune amicizie importati, prima fra tutte quella col compianto Stevie Ray Vaughan, e di inserirsi per la prima volta nel music-biz a un livello professionale. Prima di comparire negli album di Rita Coolidge e José Feliciano, e soprattutto prima di affrescare a tinte bluesy l'intero L.A. Woman dei Doors, Benno tenta la carta solista presso casa A&M con un album omonimo targato 1970 che gli fa guadagnare stima e una certa reputazione

Sulla falsariga, e sulle medesime coordinate soliste si muove anche il successivo Minnows, sorta di piacevolissimo "James Taylor gone blues" in cui magari, rispetto agli altri lavori dell'autore, la componente texicana risulta meno marcata. Disco variegato, talvolta volutamente sottotono e comunque sempre efficace nel dare risalto al profilo più intimista della scrittura di Benno, Minnows è gratificato dalla presenza di numerosi sidekicks di gran lusso: l'ex-Byrd Clarence White, lo "Stones-fella" Jesse Ed Davis e il pupillo di Sam Cooke Bobby Womack alle chitarre, Gary Illingsworth all'organo, nonché l'inossidabile Jim Keltner (ribattezzato "Jimmie Lee") ai tamburi. Con simili partners in crime è ben difficile sbagliare anche un sol colpo, e difatti Benno convince sia nel pop-rock agrodolce di Franny o Speak Your Mind sia negli episodi più strettamente blues: ammorbidito da carezze soul quello di Put A Little Love In My Soul, caracollante e ipnotico alla maniera di John Lee Hooker in Stone Cottage, "chicagoano" al midollo nella spettacolare Baby I Like You (laddove Back Down Home suona squisitamente texana), elettrico e nervoso come un serpente in Baby I Love You. Non si può dire, inoltre, che il country-folk di Good Times, le stucchevolezze alla Graham Nash di Before I Go o l'esperimento trippy della conclusiva Don't Let The Sun Go Down dispiacciano tout-court, tuttavia ancora oggi non sembrano poi particolarmente rappresentative della cifra più personale dell'artista.

Cifra stilistica, questa, che dopo il discreto Ambush del 1973 raggiunge il proprio zenith nel capolavoro Lost In Austin di 6 anni posteriore, uno dei gioielli misconosciuti dell'intera decade. Tutto è perfetto nell'album, dal songwriting di Benno, che non sarà mai più così ispirato, all'interplay della sua chitarra con quelle di Albert Lee e Eric Clapton (nientemeno!), dalla sezione ritmica ora discreta ora scalmanata di Jim Keltner e Carl Radle alle tastiere mai invadenti di Dick Sims (dal gruppo dello stesso Clapton), per finire col sax randagio di Dickie Morresey e senza dimenticare un'eminenza grigia dello spessore di Glyn Johns in cabina di regia. Impossibile, per l'ennesima volta, restare indifferenti di fronte alla superba slide che incornicia l'intreccio delle ritmiche nella travolgente Hotfoot Blues, impossibile non commuoversi riascoltando una ballata tra rock e country semplicemente perfetta come Chasin' Rainbows. Il blues domina la scena nella roccata Me & A Friend Of Mine, nel passo notturno di Monterrey Pen e nell'ilare boogie di Last Train, mentre altrove i contorni sono più sfumati. New Romance, per esempio, con quell'organo che punta dritto allo stomaco, potrebbe essere una bellissima canzone di Jimmy Webb in vena d'asciuttezze; il ruvido laid-back della title-track non si faticherebbe a crederlo sfuggito di mano a JJ Cale in un momento di distrazione. Invece è tutta farina del sacco di Marc Benno, che sa inventarsi anche la nostalgia rockabilly di Splish Splash e il sanguigno rock-blues sudista della devastante The Drifter. Splendido, poi, è il country-rock festaiolo di Hey There Senorita, che riaccende il rimpianto per un grandissimo musicista le cui potenzialità non hanno forse potuto esprimersi appieno. Nonostante l'oggidì impensabile solidarietà di una major, la carriera di Benno si interrompe bruscamente fino al 1990, anno del discreto comeback su Sky Ranch Take It Back To Texas. Da allora, una mezza dozzina di album, il pellegrinaggio presso etichette - Provogue, Del Mar, l'autogestita Marno (MARc benNO) - sempre più microscopiche, la comparsata in un tributo a Robert Johnsons e pochi segnali confortanti circa il ritorno alla forma di due decadi fa. Come si dice? "Solita vecchia storia"? Già, proprio così
(Gianfranco Callieri)