Danny
& The Champions of the World Live
Champs! [Loose
music 2014] Lucero
Live
from Atlanta[Liberty
& Lament 2014]
di
Fabio Cerbone (24/09/2014)
...Live
form the heart of the city
Ora che Bruce Springsteen è entrato forse
nella fase discografica più complicata (e affollata) della sua lunga carriera,
è interessante constatare un ritorno di fiamma delle ultime generazioni verso
quell'heartland rock di cui ha tracciato le linee guida nei suoi momenti di massimo
splendore, in simbiosi con la E Street Band. Non che fossero mai mancati segnali
di un'impronta indelebile della sua musica sul linguaggio rock americano più classico,
eppure nella lunga stagione dell'indipendenza folk, dell'alt-country e di ogni
rock'n'roll band sbucata dalla provincia, forse il sound intriso di preghiere
soul e gospel, di teatralità live e di quel desiderio di splendida grandezza che
evocava il suo gesto, per esempio nell'apoteosi di The River, sembrava un terreno
meno frequentato dai giovani musicisti. Se oggi, ai piani alti del mainstream,
gruppi come i Gaslight Anthem o persino band apparentemente lontane da quella
estetica quali gli Arcade Fire, tributano la loro più o meno dichiarata dipendenza
dal modello di riferimento, è interessante snidare nelle retrovie, tra i gregari
e gli operai del rock'n'roll, questa stessa attitudine.
Ci vengono in
soccorso proprio due album dal vivo pubblicati in queste settimane, che dalle
sponde opposte dell'Atlantico mettono in evidenza debiti e formazione da angolature
diverse, con sensibilità che da un punto comune sviluppano il proprio stile con
un approccio più o meno fedele, anche per via di una differente storia e collocazione
geografica. Degli inglesi Danny and The Champions of The World ci siamo
invaghiti lo scorso anno, grazie all'ultimo arrivato, il delizioso Stay
True, disco dove il "blue eyed soul" di Van Morrison
incontrava le strade polverose del country americano e naturalmente la forza elettrica
della E Street band. Di quest'ultima la band del barbuto Danny Wilson sintetizza
un certo trasporto nel lavoro fresco di stampa Live Champs!, doppio
che celebra in qualche modo dieci anni di strada, dopo la divisione dal fratello
nel precedente progetto Grand Drive. "It's the ultimate Champs album",
si affretta a dichiarare Danny, che è un po' come confessare la sua funzione di
greatest hits, attingendo materiale dai quattro album sin qui pubblicati. Ed è
soprattutto una apoteosi di quel heartland rock di cui sopra, tredici brani in
quattro facciate, un'ora e mezza di fedele concerto, che scartano dalla precisione
di studio della band, per offrire una faccia più ruvida ed elettrica, dove i brani
si dilatano a dismisura in lunghe cavalcate, accese dal sacro fuoco del soul e
caricate della potenza di una piccola rock'n'roll band. La voce di Danny Wilson
è sottile e finanche pop in certe sfumature, ma il resto del gruppo carica le
responsabilità sulle chitarre di Paul Lush, sempre pronte ad accennare un riff
che si perde poi in lunghe scie di assolo, ma soprattutto sul cuore musicale rappresentato
dalla steel di Henry Senior Jr. e dal sax di Geoff Widdowson, elementi che spingono
l'Americana in salsa inglese dei Champions of the World verso una musica da terra
promessa. Un celtic soul che incrocia al largo il country rock più languido e
si getta nel lirismo elettrico di Springsteen: Cold Cold
World e Let's Grab This With Both Hands
delineano tali orizzonti, e se Danny Wilson non ha capolavori o canzoni memoriabili
da offrire all'affettuoso pubblico del Jazz Cafè di Camden, dove il disco è stato
registrato lo scorso 6 marzo 2014, è pur vero che si reprira un'atmosfera di bellezza
necessaria in queste arruffate registrazioni.
Anche l'idea che la qualità
audio non sia per niente perfetta (un basso troppo presente, qualche mancanza
di definizione per le parti più acustiche) e che la band stessa perda ogni tanto
di precisione, fanno parte in fondo di quesa urgenza: ci sono gli undici minuti
della debordante Colonel & the King e gli
oltre otto della pantomima country & soul di Stop Thief! a catturare l'essenza
di questa musica. Generosi come minimo in questa cornice dal vivo, con la giusta,
abbandonata passione, quella che cancella l'inevitabile accusa di derivatività
(Other Days è una People Get Ready passata nel bagno di My City in Ruin,
o qualcosa di simile) e trascina l'ascolto tra l'innocenza rock di Every
Beat of My Heart e You Don't Know (My Heart is in The Right Place),
roba che brucia con un sentimento che sarebbe piaciuto agli Asbury Jukes di Southside
Johnny, fino alla lunga celebrazione di Restless Feet,
con annessa presentazione dei singoli membri (in tutto sei, cui si aggiungono
le voci di Trevor Moss e Hannah Lou)
È dall'altra parte dell'oceano da cui giunge la risposta americana
dei Lucero, anche loro alle prese con un doppio epico album dal vivo, in
questo caso traboccante di brani, ben trentadue, lungo due ore infuocate di rock'n'roll
dagli accenti sudisti e r&b. Frutto di tre giorni di registrazioni nel novembre
del 2013 al Terminal West di Atlanta, il primo live ufficiale della band di Memphis
enfatizza la svolta degli ultimi due dischi di studio, incorporando nel loro arcigno
sound di derivazione punk rock un'intera sezione fiati, che trasuda Stax e Muscle
Shoals da tutti i pori. Ci sono quindi evidenti trame che riconducono anche in
questo caso alla stagione dell'Asbury sound, all'epopea di uno Springsteen sanguigno,
nonché dei suoi sodali meno fortunati. È la stessa essenza delle storie raccontate
dal leader Ben Nichols, voce al catrame e energia da ultima notte in città,
a tratteggiare questo parallelo: il suo sguardo è rivolto ai margini, alle storie
di un'America ferita, agli eroi in fuga e al Sound of the City, come canta
in una della canzoni più fortunate del loro piccolo capolavoro 1372 Overton Park.
Alla malinconia da provincia oscura, alle vite spezzate e ai desideri
di rivalsa che animano le sue liriche si aggiunge l'anima musicale dei Lucero,
che nelle tastiere di Rick Steff, nel suo pianismo boogie, così come nell'ingombrante
presenza dei fiati trasfigura il linguaggio del gruppo dall'alternative country
degli esordi verso una bar band di grande impatto emotivo. Sotto traccia emergono
le chitarre rozze dello stesso Nichols e di Brian Venable, che si tengono aggrappate
al binomio Replacements-Uncle Tupelo in cui il gruppo si è formato. Eppure ascoltare
le nuove versioni di Nights Like These, Sweet
Little thing, Tonight Ain't Gonna Be Good
o That Much Further West conferma il riuscito
incontro tra un prima e un dopo: rispetto però al sound più contenuto dell'ultimo,
irrisolto Women
& Work, anche le riproposizioni dal vivo di On
My way Downtown, della stessa Women & Work, do Juniper
o Like Lightning sembrano guadagnare in sporcizia e intensità, dimostrando
come i Lucero restino ancora irruenti e poco propensi a smussare gli angoli. Gli
esiti sono trascinanti sia nel livido rock imbrattato di southern soul di What
Else Would You Have Be Me? e The Last Song, sia nella versione
più lenta e sofferente di Goodbye Again e
Breathless Love, così come infine negli orizzonti bluastri delle loro ballate
più legate alla tradizione country (My best Girl, Texas & Tennessee,
I'll Just Fall, la commovente dedica di Mom
e una straziante The War, segnata da un accordion in lontananza), passando
in rassegna tutto il loro vasto catalogo (Raising Hell e A Dangerous
Thing persino dal loro lontano omonimo esordio prodotto da Cody Dickinson).
Quasi ridondante nella sua interminabile scaletta, Live from Atlanta
ha evidenti mire celebratorie, tutte meritate peraltro, per una piccola rock'n'roll
band che dai bassifondi di Memphis si è aperta, lungo un decennio, la sua ostinata
strada, rileggendo il rock sudista sulla scia della nuova generazione del post
Drive by Truckers.