Si
dice che un giovanissimo Dion DiMucci, insoddisfatto dai coristi reclutati
dal produttore dell'epoca, abbia affermato di poter trovare voci migliori nel
cortile di casa propria. Sfidato a farlo, il nostro si reca a spron battuto in
Belmont Avenue, una delle arterie principali di quel Bronx che gli aveva dato
i natali, raduna tre amici di vecchia data e battezza la combriccola Dion &
The Belmonts. Nasce così, secondo alcuni, uno tra i gruppi più leggendari
nell'epopea del doo-wop tutta: realtà o leggenda metropolitana? Non è dato saperlo,
ma reputo tuttavia che l'episodio fornisca indicazioni attendibili sul carattere,
le prerogative e la cocciutaggine di questo italoamericano nei confronti del quale
hanno sempre espresso sconfinata ammirazione, tra gli altri, Bruce Springsteen,
Pete Townshend (che definisce Born To Be With You del 1975 il suo disco preferito
di sempre), Eric Ambel e Lou Reed. Da cinquant'anni sulla breccia, Dion ha costruito
la sua carriera affrontando i generi più disparati con immutata passione e inalterato
estro: dal vocalese degli esordi (foriero di canzoni memorabili come Donna The
Prima Donna, Runaround Sue, A Teenager In Love, The Wanderer etc.) al folk-rock
dei primi anni '70, dal gospel del decennio seguente al r'n'r metropolitano degli
anni '90. Chi volesse accostarsi oggi al personaggio potrebbe farlo attraverso
le numerose raccolte in commercio, assai precise nel documentare ogni fase del
suo lavoro: le due Ep Collection della See For Miles per quanto riguarda i primi
passi, Bronx Blues: The Columbia Recordings 1962-1965 ('91) per il prosieguo del
cammino, 70s: From Acoustic To The Wall Of Sound ('04) e The Best Of The Gospel
Years ('97) per le tappe successive, il doppio The Road I'm On ('97) per un'agile
visione d'insieme. O potrebbe rivolgersi all'eccellente box da tre cd King Of
The New York Streets ('00), oppure ancora potrebbe recuperare gli ultimi tre o
quattro dischi, che hanno visto il DiMucci cimentarsi con la medesima disinvoltura
nel mai dimenticato doo-wop (Déjà Nu ['00]), in un blue-collar rock grondante
carica ed elettricità (Live In New York ['01]) e nella nobile arte del puro cantautorato
(New Masters ['03]). Il qui presente Bronx In Blue segna l'ennesimo
cambio di rotta da parte dell'artista, stavolta cimentatosi con i classici del
blues, riletti mantenendo ovviamente intatte le peculiarità del proprio stile.
Si tratta di un album sobrio ed essenziale, il cui scopo, nelle parole di chi
l'ha realizzato, non è quello di fornire un'interpretazione audace del repertorio
scelto, bensì di ricordare con un velo di malinconia le stazioni radiofoniche
del sud che mezzo secolo fa risuonavano per i vicoli del Bronx diffondendo le
note di Howlin' Wolf o Jimmy Reed. E' pertanto scontato che la rivisitazione del
materiale di Robert Johnson (Walkin' Blues, Terraplane Blues, Crossroads,
Travelin' Riverside Blues), Lightnin' Hopkins (You Better Watch Yourself),
Bo Diddley (Who Do You Love), Jimmy Rogers (You're The One) e Blind
Willie McTell (Statesboro Blues), nonchè dei citati Wolf (Built For
Comfort, How Many More Years) e Reed (Baby, What You Want Me To
Do), suoni come una naturale estensione della personalità di Dion piuttosto
che come un compito di dettatura. Fatto salvo l'accompagnamento percussivo di
Bob Guertin in una manciata di occasioni, protagoniste assolute dell'album
sono la straordinaria voce del DiMucci (confidenziale e sicura, vellutata e trascinante
al tempo stesso) e la sua fidata Martin acustica, pizzicata con una scioltezza
e una naturalezza di tocco che spazzano via la ginnastica masturbatoria dei troppi
virtuosi in circolazione al giorno d'oggi. A ulteriore riprova della bontà del
progetto, segnalo anche la presenza di una Honky Tonk Blues (Hank Williams)
asciutta ed efficace, tra le più belle che mi sia mai capitato di ascoltare, e
di due canzoni nuove - I Let My Baby Do That e If You Wanna Rock & Roll
- che sposano alla grande spirito bluesy e speziature ritmiche provenienti direttamente
dagli anni '50. Coi lettori che nutrissero ancora qualche dubbio sulla qualità
del lavoro, magari stigmatizzandone il carattere episodico ed estemporaneo (un
doo-wopper alle prese col blues?), voglio essere onesto e confessare che Dion
Di Mucci è uno di quegli artisti nei confronti dei quali non riesco ad esercitare
alcuna obiettività critica. Tre stelle e mezzo che volevano essere quattro, dunque,
perché se è pur vero che i primi amori non si scordano mai, quelli che poi si
rivelano capaci di accompagnarti per tutta la vita meritano ancora più rispetto
e sincerità. (Gianfranco Callieri)
www.diondimucci.com
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