Dylan Bootleg Series vol.8

Tra i mille volti di Bob Dylan, quello apparso nell'ultimo quarto della sua lunga storia pur abbondando di riferimenti e di costumi, è quello che non ha maschere. Tra Oh Mercy e Time Out of Mind e l'istituzione del Never Ending Tour, Dylan ha, sì, indossato la tenuta di Hank Williams, ha ripreso e rubato le canzoni di Robert Johnson, si è nascosto dietro il pianoforte e ha giocato a rifare Jimi Hendrix a seconda del suo volatile e volubile umore, cambiando musicisti come si cambia una chitarra, finendo in un modo o nell'altro tra i fotogrammi di un film, un altro dei suoi modi per cambiare le carte in tavola, ma ha soprattutto risolto un dubbio, un'equazione, un tormento. Dylan è Dylan e paradossalmente tutto il resto, dall'autobiografia alle analisi di centinaia di esegeti, non fa che confermare la semplice natura di quest'idea. Dylan è Dylan, e basta, ma è uno che ha inventato un linguaggio e insieme a quel linguaggio anche un suono o, meglio, un modo di suonare. Se si schivano le bizzarrie del personaggio, che da una vita tende a smentirsi e a celarsi dietro mentite spoglie e se si limita l'ossessione a scavare nelle parole, infine è proprio quel modo di suonare, un po' sbilenco, molto informale (per usare un eufemismo), piuttosto caotico che è stato e rimane il suo tratto distintivo. Tell Tale Signs vive sull'ondulazione dei ritmi e della corrente ed è simbolico di quel modo di suonare che non è né out of mind né out of time, ma che ormai con Dylan o con tutti quelli che hanno imparato da lui, vive di vita propria.
(Stefano Hourria)

 

Bob Dylan
Tell Tale Signs- The Bootleg Series vol.8
[Columbia/ Sony  2008]



Arrivata oramai all'ottavo volume, la Bootleg Series di Bob Dylan ci offre stavolta un piatto più composito e variegato rispetto alle uscite precedenti. Ci troviamo davanti, infatti, una raccolta di outtakes dagli album compresi tra Oh Mercy e Modern Times, cui vanno aggiunte una manciata di brani tratti da colonne sonore e qualche pezzo registrato dal vivo. Visto così, questo nuovo volume potrebbe sembrare il meno appetibile fra tutti quelli usciti finora. In realtà, basta ascoltare per ricredersi completamente. Ogni brano compreso in questi due dischi è, da una parte, l'ennesima conferma che a Bob Dylan basta scendere in campo con le sue outtakes per far impallidire tutti i songwriters dell'orbe terracqueo e, dall'altra, l'ennesimo tassello di un puzzle che Bob sta costruendo da più di vent'anni alla ricerca di quella che Greil Marcus chiama, con un'affascinante locuzione, "Repubblica invisibile", un viaggio alle radici della musica americana che attraversa i canti di immigrazione, gli "highway blues" dei prigionieri, il blues elettrico del Delta, il bluegrass e l'hillbilly ma anche il rock and roll e la beat generation.

Il frutto di questa ricerca è un suono che trascende il tempo e che, anzi, crea una concezione di tempo a sé stante, "tempo fuori dalla mente", come titolava il suo grande disco del 1997. Ma lasciamo per un momento perdere queste tematiche per concentrarci sul contenuto musicale di Tell Tale Signs. Si parte con Mississipi, in una scarna versione acustica, lontana anni luce dalla trionfale versione contenuta in Love and Theft ma comunque decisamente affascinante. Ci si addentra poi in un uno-due da brividi: la Most of the Time (Oh mercy) è un'altra canzone rispetto all'originale, acustica e perfettamente punteggiata dall'armonica e rimanda nientemeno che al feeling di Blood on the Tracks, mentre la Dignity qui proposta è una ballata da brividi proposta dal solo Dylan al pianoforte ed è diametralmente opposta rispetto alla versione blues fin qui conosciuta. Si passa poi a Someday Baby, qui più calda e coinvolgente rispetto a quella pubblicata su Modern Times. Red River Shore, un capolavoro purissimo (dalle session di Time out of Mind, anche se il feeling ricorda più quello di Love and Theft), è una border ballad con la fisarmonica di Augie Meyers che disegna malinconicamente paesaggi desertici e la voce di Bob che a volte sussurra quasi i versi mentre altre volte li grida con un pathos incredibile.

Non potendo per motivi di spazio menzionare tutti i brani di questo primo cd (quantunque ogni pezzo meriterebbe una recensione a sé stante), ci limiteremo a sottolineare la bellezza di Huck's tune (che ricalca clamorosamente il riff e la melodia di Tramp & Hawkers di Jim Ringer, misconosciuto ma grandioso cantautore californiano ma, tant'è, Bob ci ha spesso abituati a "citazioni" di questo genere), il cuore di Marchin' to the City, altra outtake da Time out of Mind, un blues paludoso che cresce mano a mano come il Mississipi in piena, e l'inusitata potenza di fuoco di High Water, registrata dal vivo nel 2003 e posta in chiusura del primo cd, con le chitarre sferzanti di Freddie Koella e Larry Campbell (forse la coppia di chitarristi migliori che abbiano mai fatto parte della backing band di Bobby) che paiono fiumi in piena pronti a travolgere tutto.

Il secondo cd si apre con una seconda versione di Mississipi, qui più morbida e rilassata e si passa attraverso una outtake di quella gemma nascosta che risponde al nome di World Gone Wrong, 32-20 blues, un brano di Robert Johnson che ci fa rendere conto di quanto sia grande Dylan come interprete, non tanto per capacità tecnica quanto per passione e "soul nearness" nei confronti degli originali. La stessa impressione si coglie anche dalle esecuzioni dal vivo di Cocaine Blues, The girl on the Greenbriar Shore e The Lonesome River, qui proposta in duetto con Ralph Stanley, colonna portante della Traditional music americana. Ma le vette di questo cd Bob le tocca con la Ring them Bells tratta da uno dei quattro concerti acustici del 1993 al Supper's club di New York (e, se non li doveste avere, procuratevi seduta stante i bootleg di queste performances), carica di pathos e che sembra una preghiera, neppure poi tanto laica. Da ricordare sono anche Ain't Talking, più grezza dell'originale pubblicato su Modern Times e che potrebbe essere, a livello di testo, il manifesto vero e proprio dell'opera di Dylan, e Miss the Mississipi, sbucata dalle fantomatiche sessions del 1992 con David Bromberg (il cui prodotto, che non ha mai visto la luce nemmeno sotto forma di bootleg, è considerato uno dei più misteriosi lost albums della storia del rock and roll). Chiude questo ottavo volume una delle più belle composizioni di Dylan, 'Cross the Green Mountain, scritta per la colonna sonora del film "Gods and Generals" e che costituisce il miglior viatico per concludere questa raccolta e testimoniarci una volta per tutte che, ancora oggi, Bob Dylan è insuperato. Insomma, questo Tell tale signs è un disco imprescindibile per tutti, sia quelli che conoscono già tutto dell'artista, sia per quelli che vogliono avvicinarsi alla sua produzione degli ultimi vent'anni.
(Gabriele Gatto)

N.d.R.: accanto alla versione doppia è uscita anche una versione ultralimitata (ed ultracostosa...) con un cd in più ma che invero nulla aggiunge e nulla toglie alla versione "base", soprattutto alla luce dello spropositato rapporto qualità-prezzo

 


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