Che il concetto di cover possa essere un’arte e non soltanto
un mero esercizio di stile, è una questione di talento che in pochi riescono
ad esprimere fino in fondo. Ci sono esempi, singoli album, rare operazioni
di tributo, che restano circoscritti e apprezzabili, più difficile tuttavia
pensare a un artista che consapevolmente ne abbia fatto un terreno fertile
per la sua stessa crescita e identità. I canadesi Cowboy Junkies
rappresentano la classica eccezione, una band che non si è mai negata
questa rischiosa pratica di rilettura, fin da quel loro timido esordio
del 1986, Whites Off Earth Now!!, che navigava in acque folk e
blues attraverso un pugno di classici. Per non dire poi di una personale
pietra miliare, The Trinity Session (1988), che sebbene li svelasse
al mondo con brani originali, raggiungeva il cuore degli appassionati
soprattutto grazie alle rielaborazioni spettrali di Sweet Jane
(Velvet Underground) e I’m So Lonesome I Could Cry (Hank Williams),
a riprova di questo rapporto speciale.
Songs of the Recollection si insinua in un tale percorso, dopo
più di trent’anni di carriera, svelandone il segreto: l’appropriazione
del materiale altrui con un gesto che è al tempo stesso rispettoso del
modello di partenza e attraversato dal desiderio di farne una personale
creazione dell’anima, in questo aiutato dalle capacità istrioniche delle
chitarre di Micheal Timmins e soprattutto dal canto angelico, tutto languori
e introspezione, della sorella Margo. Nove brani, nemmeno del tutto inediti,
con cinque nuove incisioni e altre chicche sparse, recuperate da tributi,
singoli ed Ep lasciati come segnali lungo la strada, l’album è solo in
apparenza un diversivo in attesa di nuove registrazioni, un richiamo per
gli adepti, anche se colto nel suo insieme brilla di una luce che molto
racconta dell’intensità dei Cowboy Junkies, di quella loro immutabile
formula musicale che nel tempo sembra essersi affinata. E così, paradossale,
si finisce per amare questo Songs of the Recollection più delle
ondivaghe, anche se riguardose, prove discografiche offerte dalla band
nelle ultime stagioni.
Facile, si dirà, è la bellezza delle canzoni scelte, eppure la magnificenza
delle dinamiche ricreate dai Cowboy Junkies è qui a dimostrare la differenza,
in quel gioco di vuoti e pieni, di sussurri e scrosci, lì dove il gesto
folk rock del gruppo incontra l’epica e i maremoti di Five Years
(David Bowie), si liquefà nell’irriconoscibile versione tra acid rock
e riverberi di Ooh Las Vegas (Gram Parsons), prima di ritrovare
la via delle radici nella più ossequiosa lettura di No Expectations
(Rolling Stones). Gli amori, anzi, le ossessioni dei Cowboy Junkies, ci
sono tutte, a cominciare dal connazionale Neil Young, che è sempre stato
un’ombra protettiva e sicura sulla loro stessa musica (Powderfinger
faceva bella mostra sul loro terzo album, The Caution Horses):
qui scelgono un brano quasi intoccabile, Don't
Let It Bring You Down, e lo espandono con l’immancabile piglio
elettrico di un Michael Timmins particolarmente aguzzo, in contrasto con
la solita tenerezza di Margo al canto, mentre la piccola sorpresa è Love
in Mind, da Time Fades Away, fedele alla fragilità di
Young, ma allargata rispetto al tono intimo e pianistico dell’originale.
C’è il tempo per un altro orgoglioso frutto del Canada folk con The
Way I Feel di Gordon Lightfoot, ispessita dagli stridori elettrici,
un western rock sul quale la sezione ritmica avanza precisa prima di acquietarsi
sulle carezze da valzer country folk di una commovente I've Made Up
My Mind to Give Myself to You (Bob Dylan) per chitarrra acustica e
mandolino.
I fuochi di artificio però sono riservati per il gran finale, come altrimenti:
Marathon è una composizione di Vic Chesnutt che arriva dal raccolto
di Demons (album tributo del 2011, al tempo la traccia uscì solo
come bonus digitale), ballata dolente trafitta da feedback e scricchiolii
elettrici, preparazione ideale alla chiusura di Seventeen
Seconds, il brano dei Cure che qui letteralmente galleggia
in un letargico mare psichedelico che sembra uscire da una session perduta
di Neil Young (ancora lui) con i Crazy Horse, fuochi fatui che accompagnano
l'uscita di scena della band.