Light of Day: A Tribute to Bruce Springsteen
Autori vari
Light of Day
(Schoolhouse/ Big Daddy) 1/2

 

"Allora Bruce, cosa hanno significato per te, durante gli anni, tutti questi concerti?"
"Be', semplicemente, io arrivavo in città e dicevo alla gente di tenere duro."

Su quale debba essere il "senso" di un tributo si dibatte da tempo. Personalmente ritengo abbia sì poco senso riproporre in modo pedissequo gli stilemi delle canzoni che si vogliono celebrare, ma allo stesso tempo non trovo del tutto corretta nemmeno l'idea di stravolgerli e renderli irriconoscibili: cioè, se non abbiamo nessuna garanzia su quale sarà la destinazione, allora tanto vale salpare da un punto di partenza qualsiasi, no? Inoltre, se alcuni canoni - quello di Bob Dylan, per esempio - sembrano concepiti appositamente per favorire molteplici letture, altri repertori, e quello di Bruce Springsteen tra essi, le rendono a priori difficoltose: troppo alto il coefficiente di autobiografismo, confessionalità e esposizione dei propri sentimenti più intimi in essi contenuto per sperare che terzi, pur preparati e passionali, possano ricavarne qualcosa di credibile. E' con una certa sorpresa, quindi, che da diversi giorni ascolto e apprezzo questo Light Of Day; lo definirei anzi il migliore fra i tributi sinora pagati al piccolo grande uomo del New Jersey. Non per demeriti della concorrenza, sia chiaro. Solo che, magari, Cover Me (Rhino, 1986), progettualmente ineccepibile, scontava una familiarità dei partecipanti - Gary US Bonds, Southside Johnny, Patti Smith, Dave Edmunds, Beat Farmers - all'universo di Bruce persino eccessiva; il Bruce Springsteen Songbook approntato dalla Connoisseur circa 8 anni fa ne replicava le modalità (ovverosia l'assemblaggio di cover preesistenti) con criteri un po' più elastici; One Step Up / Two Steps Back (The Right Stuff, 1997), con le sue carrellate tra David Bowie e Joe Cocker, Donna Summer e Richie Havens, finiva col suonare altalenante e dispersivo; i due one-shots allegati l'anno scorso alla rivista britannica Uncut contenevano diverse gemme realizzate per l'occasione, ma altrettanto ciarpame fuori tema. Ho invece maturato la convinzione che Light Of Day abbia saputo cogliere un aspetto fondamentale della poetica springsteeniana: sono canzoni, le sue, dove il senso di sconfitta e la speranza di riscatto vanno di pari passo. Per questo è perfetta l'istantanea di Lewis Bloom che incornicia l'elegante digipack della confezione, perché coglie sia l'essenza desolata e solitaria del boardwalk di Asbury Park sia la promessa di un giorno nuovo, e migliore di quello trascorso, che la fredda luce dell'alba porta con sé. Il nocciolo del "fare musica" di Springsteen, così come l'essenza di quello che ci ostiniamo a chiamare blue-collar rock, sta in fondo tutto qui, in quella frase di Stand On It che recita "amico, trovati una ragazza / e vai a vedere una rock'n'roll band": lui e gli E Streeters sono sempre stati - sempre hanno voluto fortissimamente essere - quella rock'n'roll band, quella in grado di regalarci, per tre ore perlomeno, uno scampolo di vita meno bastarda. Aspetto, questo della fiducia nei propositi nobili dell'uomo, che ritorna puntuale nei pensieri degli artisti qui coinvolti. Jesse Malin, per esempio, che asciuga e addolcisce Hungry Heart, dice: "Secondo Tom Wolfe 'non puoi tornare a casa di nuovo', ma ogni tanto devi - sei affamato". Matthew Ryan, alle prese con una Something In The Night scabra, di rara intensità, afferma che in un momento nel quale si sentiva prossimo a perdere tutto, la canzone l'ha aiutato a ritrovare se stesso: "Springsteen sembra aver sempre saputo che i sogni non sono altro che quello che tu fai di loro". Cindy Bullens, che ha provato sulla propria pelle cosa significa perdere una figlia di 11 anni a causa del cancro (e vorrei ricordare che tutti i proventi derivati dalle vendite dell'album saranno devoluti alla Parkinsons Disease Foundation e al Kristen Ann Carr Fund, consacrato alla lotta ai tumori), interpreta con naturalezza e melanconia disarmanti una If I Should Fall Behind di gran lunga superiore all'originale - ok, lo so che sembra impossibile, ma direi lo stesso per la Book Of Dreams in chiave fifties di Dion DiMucci, per un'acustica e deliziosa Man At The Top che conferma l'attuale stato di grazia del Nils Lofgren solista e per i trascinanti Paradise Brothers (ovverosia Neil Giraldo e un rock'n'roll heart di provata fede quale Scott Kempner, ex-Dictators e ex-Del Lords tra gli altri) di Souls Of The Departed. Bravi anche l'Elliott Murphy di Better Days, i Lucky 7 di Kenny Margolis in una Valentine's Day dal format "louisiano", Mike Rimbaud e Billy Bragg con i suoi Blokes, che elettrificano e riarrangiano due brani di Nebraska - rispettivamente Atlantic City e Mansion On The Hill - senza smarrire l'intensità degli originali; onesto Pete Yorn, cimentatosi con un pezzo da novanta come New York City Serenade, che ha optato per una trasposizione fedele, secca, umile e rigorosa; divertenti e sbarazzini i Clarks di una The River nervosamente rockeggiante; commossa e sincera la My Hometown di Jason Ringenberg; impagabili i Mystic Knights Of The Sea (Rick Richards e Dan Baird dei Georgia Satellites, insomma) che bombardano di foga rockinrollistica Johnny 99. Su di un gradino più alto metterei Dan Bern, con una Thunder Road acustica e piena di struggimento, il nostro Graziano Romani e la sua The Promise dal tocco soul e soprattutto l'indimenticato John Cafferty, che seguito a ruota dalla fedele Beaver Brown Band si scatena in una torrida rendition di E Street Shuffle: "Un peana - dice lo stesso Cafferty - alla fraternità tra le bar bands con radici nel rhytm'n'blues e nel soul classico che giravano il circuito dei club del nord-est nella metà degli anni '70". Fraternità, parola usata non a caso dal più ispirato in un gruppo di musicisti per il quale le canzoni di Bruce Springsteen, come per me, come per voi, sono state la più gratificante, la più coerente, la più sentita delle "living proof"..
(Gianfranco Callieri)


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