Mercury Rev
Bobbie Gentry's The Delta Sweete Revisited
[Bella Union 2019]

mercuryrev.com

File Under: Down in Mississippi

di Fabio Cerbone (09/02/2019)

La voce di Bobbie Gentry non canta da tempo ormai, ritirata dai riflettori con una di quelle storie dello show business che affascinano proprio nel loro desiderio di segretezza. L’artista originaria del Mississippi, e divenuta un caso unico grazie al successo di Ode to Billie Joe, uno dei singoli più trasmessi del 1967 e brano simbolo di quel misterioso "gotico sudista" messo in musica, vive appartata dalla fine degli anni settanta, sorta di musa ispiratrice per numerose voci dell’Americana e non solo. L’idea di riprenderne in maniera filologica l’opera - esattamente a ridosso della pubblicazione del monumentale The Girl from Chickasaw County: The Complete Capitol Masters, cofanetto di otto dischi che ne documenta l’intera carriera presso la Capitol - è un atto insolito e intelligente di rivitazione del canone sudista da cui proviene la figura della Gentry, intreccio di radicalità country, languori blues e sofisticazione pop soul.

Ad animare l’intera operazione discografica di Bobbie Gentry's The Delta Sweete Revisited una delle formazioni più sfuggenti e originali del panorama alternative rock, quei Mercury Rev oggi condotti dai soli membri originali Jonathan Donahue e Grasshopper, con la collaborazione del pianista Jesse Chandler (Midlake): il loro approccio spesso magniloquente, sinfonico e celestiale al tempo stesso, nei confronti delle radici della musica americana sembra tornare ai tempi del capolavoro riconosciuto Deserter’s Song, e chi allora restò incantato da quella singolare forma, che pareva unire magicamente i Beach Boys di Pet Sounds con l’Arcadia roots di The Band, la psichedelia più morbida con l’enfasi del vaudeville e dei musical, troverà nella rivisitazione di questa dozzina di ballate lo stesso arcano senso di bellezza.

In principio pubblicato sulla scia dell’enorme successo ottenuto da Ode to Billie Joe, nel 1968 The Delta Sweete fu un disco di importanza personale per Bobbie Gentry, ma un autentico fiasco in termini di vendite. Neppure lontanamente paragonabile alle attenzioni suscitate da quel primo singolo - una popolarità internazionale che la fece diventare una star in Inghilterra e persino apparire in Italia, con una fugace partecipazione al Festival di Sanremo (La siepe, nientemeno che in coppia con Albano), The Delta Sweete raggruppava una manciata di brani autografi che narravano l’intenso legame di Bobbie con la sua terra d’origine, il Mississippi più rurale, scegliendo quindi un paio di cover (Big Boss Man e Tobacco Road) che ne rafforzassero l’impianto geografico e il sentimento da romanzo di formazione. Simile in questo ad altri album contemporanei, tra i quali saltano alla mente Coat of Many Colors e My Tennessee Mountain Home della collega Dolly Parton, The Delta Sweete evocava ricordi e immagini di un sud vero e immaginario al tempo stesso, una nostalgica narrazione che Bobbie Gentry declinava al passo di un country soul imbevuto di radici swamp e blues, reso languido dall’utilizzo degli archi, una sorta di versione più southern e verace di Dusty Springfield.

Nel tentare una nuova scalata al disco, brano dopo brano, evocandone le suggestioni degne di un racconto di Flannery O’Connor, i Mercury Rev non hanno potuto altrimenti che ricorrere alla partecipazione di dodici voci femminili del mondo indie rock, folk e pop, ciascuna alle prese con un singolo paragrafo. E mentre il gruppo orchestra (è proprio il caso di scomodare tale verbo) una colonna sonora sontuosa e fluttuante, le “prime donne” affrontano il materiale da diverse angolazioni, ma sempre rispettose dell'idea di partenza di Bobbie Gentry. Non è una pallida imitazione, e non lo sarebbe mai stata, ma neppure uno stravolgimento vero e proprio a ben vedere: Bobbie Gentry's The Delta Sweete Revisited mantiene in lontananza i colori della tradizione a cui fa riferimento, ciononostante non suona affatto come un trattato fedele, semmai una sinfonia sudista da mettere in scena a Broadway, cominciando con l’introduzione magistrale di Norah Jones e della sua versione di Okolona River Bottom Band. Siamo già immersi nell’atmosfera straniante che i Mercury Rev, affascinati fin da ragazzi dall’ascolto di Ode to Billie Joe e dalla voce della Gentry, hanno voluto donare a questi brani, ripercorsi con un afflato a tratti dolcissimo e fragile (capita nella fanciullesca melodia di Reunion, cantata da Rachel Goswell), altre più vicino allo spirito swamp di partenza (su tutte la spettrale Big Boss Man di Hope Sandoval).

La semplice complessità delle versioni, questo apparente ossimoro musicale, è la vera qualità dell’album tributo realizzato dai Mercury Rev, mutando forma di interprete in interprete: Carice Van Houten rende il blues gotico di Parchman Farm qualcosa di simile alla trance africana; Laetitia Sadier (Stereolab) pare una risorta ed elegante Nico in Morning Glory; la norvegese Susanne Sundfør trasforma Tobacco Road in una fastosa e arrembante preghiera di pop sinfonico; mentre le giovani voci di Margo Price (stentorea in Sermon) e Phoebe Bridgers (quasi trasperante in Jessye’ Lisabeth) testimoniano il passaggio alle nuove generazioni della lezione di una figura così sfuggente e in parte dimenticata come Bobbie Gentry.

Chi incanta più fra le varie protagoniste sin qui menzionate, sono tuttavia signore del folk dalla lunga esperienza e pronfonda consapevolezza della materia: arrivano da lì l’etereo canto di Vashti Bunyan in una Penduli Pendulum che sembra quasi trasfigurarsi in un fantasma di canzone, o ancora la bravissima Beth Orton, letteralmente immersa nei riverberi di Courtyard. A chiudere questo abbagliante omaggio non poteva che spuntare Ode to Billie Joe, in realtà estranea all’album originale, ma punto di partenza e ispirazione dell’intero progetto: a domarla con proverbiale ferocia e tensione Lucinda Williams, un’altra grande figlia del sud come Bobbie Gentry.


    

 


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