La voce di Bobbie Gentry non canta da tempo ormai, ritirata
dai riflettori con una di quelle storie dello show business che affascinano
proprio nel loro desiderio di segretezza. L’artista originaria del Mississippi,
e divenuta un caso unico grazie al successo di Ode to Billie Joe,
uno dei singoli più trasmessi del 1967 e brano simbolo di quel misterioso
"gotico sudista" messo in musica, vive appartata dalla fine
degli anni settanta, sorta di musa ispiratrice per numerose voci dell’Americana
e non solo. L’idea di riprenderne in maniera filologica l’opera - esattamente
a ridosso della pubblicazione del monumentale The Girl from Chickasaw
County: The Complete Capitol Masters, cofanetto di otto dischi che
ne documenta l’intera carriera presso la Capitol - è un atto insolito
e intelligente di rivitazione del canone sudista da cui proviene la figura
della Gentry, intreccio di radicalità country, languori blues e sofisticazione
pop soul.
Ad animare l’intera operazione discografica di Bobbie Gentry's The
Delta Sweete Revisited una delle formazioni più sfuggenti e originali
del panorama alternative rock, quei Mercury Rev oggi condotti dai
soli membri originali Jonathan Donahue e Grasshopper, con la collaborazione
del pianista Jesse Chandler (Midlake): il loro approccio spesso magniloquente,
sinfonico e celestiale al tempo stesso, nei confronti delle radici della
musica americana sembra tornare ai tempi del capolavoro riconosciuto Deserter’s
Song, e chi allora restò incantato da quella singolare forma, che
pareva unire magicamente i Beach Boys di Pet Sounds con l’Arcadia roots
di The Band, la psichedelia più morbida con l’enfasi del vaudeville e
dei musical, troverà nella rivisitazione di questa dozzina di ballate
lo stesso arcano senso di bellezza.
In principio pubblicato sulla scia dell’enorme successo ottenuto da Ode
to Billie Joe, nel 1968 The Delta Sweete fu un disco di importanza
personale per Bobbie Gentry, ma un autentico fiasco in termini di vendite.
Neppure lontanamente paragonabile alle attenzioni suscitate da quel primo
singolo - una popolarità internazionale che la fece diventare una star
in Inghilterra e persino apparire in Italia, con una fugace partecipazione
al Festival di Sanremo (La siepe, nientemeno che in coppia con
Albano), The Delta Sweete raggruppava una manciata di brani autografi
che narravano l’intenso legame di Bobbie con la sua terra d’origine, il
Mississippi più rurale, scegliendo quindi un paio di cover (Big Boss
Man e Tobacco Road) che ne rafforzassero l’impianto geografico
e il sentimento da romanzo di formazione. Simile in questo ad altri album
contemporanei, tra i quali saltano alla mente Coat of Many Colors e
My Tennessee Mountain Home della collega Dolly Parton, The Delta
Sweete evocava ricordi e immagini di un sud vero e immaginario al tempo
stesso, una nostalgica narrazione che Bobbie Gentry declinava al passo
di un country soul imbevuto di radici swamp e blues, reso languido dall’utilizzo
degli archi, una sorta di versione più southern e verace di Dusty Springfield.
Nel tentare una nuova scalata al disco, brano dopo brano, evocandone le
suggestioni degne di un racconto di Flannery O’Connor, i Mercury Rev
non hanno potuto altrimenti che ricorrere alla partecipazione di dodici
voci femminili del mondo indie rock, folk e pop, ciascuna alle prese con
un singolo paragrafo. E mentre il gruppo orchestra (è proprio il caso
di scomodare tale verbo) una colonna sonora sontuosa e fluttuante, le
“prime donne” affrontano il materiale da diverse angolazioni, ma sempre
rispettose dell'idea di partenza di Bobbie Gentry. Non è una pallida imitazione,
e non lo sarebbe mai stata, ma neppure uno stravolgimento vero e proprio
a ben vedere: Bobbie Gentry's The Delta Sweete Revisited mantiene
in lontananza i colori della tradizione a cui fa riferimento, ciononostante
non suona affatto come un trattato fedele, semmai una sinfonia sudista
da mettere in scena a Broadway, cominciando con l’introduzione magistrale
di Norah Jones e della sua versione di Okolona
River Bottom Band. Siamo già immersi nell’atmosfera straniante
che i Mercury Rev, affascinati fin da ragazzi dall’ascolto di Ode to
Billie Joe e dalla voce della Gentry, hanno voluto donare a questi
brani, ripercorsi con un afflato a tratti dolcissimo e fragile (capita
nella fanciullesca melodia di Reunion, cantata da Rachel Goswell),
altre più vicino allo spirito swamp di partenza (su tutte la spettrale
Big Boss Man di Hope Sandoval).
La semplice complessità delle versioni, questo apparente ossimoro musicale,
è la vera qualità dell’album tributo realizzato dai Mercury Rev, mutando
forma di interprete in interprete: Carice Van Houten rende il blues gotico
di Parchman Farm qualcosa di simile
alla trance africana; Laetitia Sadier (Stereolab) pare una risorta ed
elegante Nico in Morning Glory; la norvegese Susanne Sundfør trasforma
Tobacco Road in una fastosa e arrembante preghiera di pop sinfonico;
mentre le giovani voci di Margo Price (stentorea in Sermon)
e Phoebe Bridgers (quasi trasperante in Jessye’ Lisabeth) testimoniano
il passaggio alle nuove generazioni della lezione di una figura così sfuggente
e in parte dimenticata come Bobbie Gentry.
Chi incanta più fra le varie protagoniste sin qui menzionate, sono tuttavia
signore del folk dalla lunga esperienza e pronfonda consapevolezza della
materia: arrivano da lì l’etereo canto di Vashti Bunyan in una Penduli
Pendulum che sembra quasi trasfigurarsi in un fantasma di canzone,
o ancora la bravissima Beth Orton, letteralmente immersa nei riverberi
di Courtyard. A chiudere questo abbagliante omaggio non poteva
che spuntare Ode to Billie Joe, in
realtà estranea all’album originale, ma punto di partenza e ispirazione
dell’intero progetto: a domarla con proverbiale ferocia e tensione Lucinda
Williams, un’altra grande figlia del sud come Bobbie Gentry.