Questo è un colpo basso, e per giunta di quelli ben riusciti!
Lasciati da parte i sogni di gloria pop che sembravano in parte avere
compromesso il gesto soul più autentico di questo “shouter” dei nostri
giorni, Eli Paperboy Reed ha riscostruito pazientemente la sua
carriera in casa Yep Roc, prima riprendendo i fili dei suoi eterni amori
musicali, quindi cogliendoci letteralmente di sorpresa con la pubblicazione
di questo Down Every Road. Fin dalla copertina studiata
nei minimi dettagli per richiamarne l’immaginario, anni di "rivoluzioni
country" da Bakersfield, California, l’album è un tributo all’eredità
musicale del gigante Merle Haggard, dodici perle colte dal suo vasto catalogo
in casa Capitol (gli anni migliori dell’autore, tra la metà dei Sessanta
e la fine dei Settanta) e riverniciate a nuovo dagli accesi colori southern
soul che innervano la voce e lo stile di Reed.
L’effetto è sorprendente e dinamico nel suo abito vintage, come se i fuorilegge
del country si fossero fatti un viaggio giù a Muscle Shoals, staccando
poi un biglietto per Memphis e un contratto fiammante con la Stax. Vasi
comunicanti da sempre quelli della sweet soul music e del country,
intrecci che da Solomon Burke a Ray Charles, giusto per ricordare due
maestri, hanno sempre messo a confronto mondi solo in apparenza distanti,
in verità nati nello stesso alveo della tradizione americana del Sud,
Eli Paperboy Reed ne riprende il discorso scartando di lato e cogliendo
nel canzoniere di Haggard, ribelle californiano che ha tracciato il solco
del movimento “outlaw” e non solo, un mix di romanticismo e immediatezza
dei sentimenti che è l’ideale per queste interpretazioni. La molla è scattata,
come prevedebile, in tempi di stop forzati e pandemia, quando Reed ha
registrato in solitaria per poi riunire una band rodata all’Hive Mind
Recording di Bushwick, New York, ma senza mettere a disposizione dei musicisti
il paragone con i brani originali.
L’approccio “alla cieca” è stato risolutivo, facendo cambiare totalmente
pelle e mood a queste incisioni, che dai classici più riconosciuti (l’apripista,
irresistibile, Mama Tried, il gioello
di ballata Silver Wings o l'inno blue collar Workin’ Man Blues
rivisto in chiave swamp) agli accorti ripescaggi di gemme nascoste, suonano
spumeggianti per capacità di interpretazione e adesione degli arrangiamenti
al clima sourhern soul di un’epoca lontana. E allora è come sentire Wilson
Pickett e Otis Redding (magari con una vampa di funk alla James Brown)
irrompere dentro le stanze di un bordello country e mettere tutto sottosopra.
L’eccitazione di I’m Bringing Home Good News
libera l’urlo di Eli, mentre la sezione fiati si surriscalda; Somewhere
Between, One Sweet Hello e If We Make It Through December
sono il paradiso della ballata country soul; It’s
Not Love But It’s Not Bad un sussulto continuo di groove, cori
e fiati per quella che resta la meraviglia dell’intero disco; infine la
nota dichiarazione da outlaw di I’m a Lonesome Fugitive il momento
che sembra conservare più legami con la versione di partenza di Haggard.
Il quale, possiamo solo ipotizzare vista la scomparsa, si sarebbe divertito
un mondo davanti all’iniezione di spavalda energia che Eli Paperboy Reed
ha riservato alle sue canzoni, svelando un sorriso compiaciuto sul finale
guancia a guancia di Today I Started Loving You Again, duetto di
Reed con Sabine McCalla che chiude un tributo irresistibilmente retromaniaco,
dal suono pulsante e curato nei minimi dettagli d’epoca, ma soprattutto
capace di regalare gioia e condivisione, con uno scorcio di american music
del quale non smetteremo di sorprenderci, per i mondi e le storie che
riesce a far collidere fra loro.